Maggie Björklund Shaken
2014 - Bloodshot / IRD
#Maggie Björklund#Rock Internazionale#Songwriting #Americana
Nata a Copenaghen ma cresciuta a stelle e strisce, la gentildonna puo' vantare collaborazioni da fare invidia. La ritroviamo in Lazzaretto di Jack White e in Tucson dei Giant Giant Sand, mentre nel suo disco d'esordio, Coming Home (2011) fanno bella mostra Howe Gelb, Mark Lanegan, Burns e Convertino (Calexico), e John Auer (Posies).
Sembra scontato e banale, ma la songwriter, con Shaken, ci scuote davvero.
La voce fresca e limpida della Bjorklund si trasfigura nel corso dei brani mutando sempre di forma e mai di sostanza, come le dune sabbiose tempesta dopo tempesta.
Dal godibile folk-pop di Walking e di Name In The Sand ci troviamo catapultati su una tortuosa Road To Samarkand, che prende le mosse da un blues progressivamente seccato e inasprito dalle vertiginose temperature desertiche, e che ci porta al bellissimo duetto con Kurt Wagner (Lambchop) in Fro Fro Heart. Voci e musiche trasportate da un vento a cui è difficile opporsi e che, per l'intensità dell'attrito tra i due timbri, ricorda quello memorabile di David Byrne ed Anna Calvi nel suo ultimo EP.
La voce della danese si fa ora grave ma leggera, sensuale e tentatrice senza tuttavia perdere in purezza, posandosi come cenere su Ashes, ciò che è rimasto da quell'incendio divampato in Dark Side Of The Heart, prima traccia del disco. I suoi echi appaiono adesso ancora più lontani seppur sempre presenti, come ricordo marchiato a fuoco e tenuto vivo nell'ombra, nella parte più oscura del cuore.
Impossibile non considerare l'influenza che la malattia e la morte della madre ha esercitato sulla donna e, per direttissima conseguenza, sull'intero album, facendolo apparire più oscuro e cavernoso, distante anni luce dal precedente.
A fare la differenza, però, è il pregiato tessuto sonoro di Shaken, risultato di un aggrovigliarsi di materie prime che sarebbe riduttivo definire di tutto rispetto. La pedal steel della stessa Bjorklund, insieme al violoncello di Barb Hunter, funge da collante unendo le schegge distorte della sei corde di John Parish - che inevitabilmente vibra di Sparklehorse e PJ Harvey – alle note del basso targato Portishead di Jim Barr e ai frammenti ritmici della nervosa batteria di Convertino.
Dotati di un particolare fascino crepuscolare e degni di menzione a parte sono The Unlucky e Missing At Sea, i due strumentali che più brillano di quella stessa Black Light che ha consacrato la band di Burns & Co.
Se volete che questo vortice sabbioso vi scuota senza farvi riportare danni permanenti alla vista c'è solo una cosa da fare: chiudere gli occhi. E poi, ovviamente, ascoltare.