Jama Trio A Process
2018 - Autoprodotto
#Jama Trio#Rock Internazionale#Alternative #Gianmario Ferrario #Massimo Allevi #Francesco Croci
Ritornati a una produzione totalmente autonoma dopo due lavori con Rivertale (c’è infatti da registrare anche Jama Tree, un live poco pubblicizzato del 2017) i tre musicisti lombardi sembrano assaporare un desiderio di libertà che li porta verso un album fin troppo ricco d’idee e prospettive.
Si inizia bene con la novità delle speziature elettroniche di Rec Time e, certo, magari non è questo il classico inizio a cui la band capitanata da Gianmario Ferraro ci aveva abituato, ma il tutto funziona benissimo anche grazie a una bella scrittura che, passando per qualche pennata di sano chitarrismo rock, sembra ricordare le venature pop più elaborate di un grandissimo autore come John Grant. Tibetian Bridge, anche grazie a una tastiera che disegna un tema dai leggeri profumi prog, trasforma un classico giro alla “Jama Trio” in un brano più pop. Much ado About Nothing vede ancora l’elettronica come biglietto da visita ma in realtà per larga parte del brano è la batteria di Francesco Croci a segnarne la potente percussività sottointesa nel brano e che viene alleggerita dai suoni di fiati penso dovuti alle tastiere del bassista del trio Massimo Allevi.
Piccole percussioni riverberate aprono Ready to Lose ma, in questa ballata, sono le belle chitarre di Jama a dare il giusto sapore quasi soul al brano. Ma è con il quinto brano che il Jama Trio affonda nel desiderio del cambiamento. Ground è un salto in avanti straordinario! Un brano tutto giocato su un arrangiamento elettronico che sta tra un James Blake più ordinato ritmicamente e un Bon Iver reduce da un isolamento di otto mesi nell’inverno canadese (con l’ulteriore audacia di spingere l’effettistica sulla voce ancora più in là). Il risultato è uno strano quanto potente pezzo no-soul perfetto questo millennio appena iniziato. Purtroppo dopo Ground il disco ha in scaletta K is for Kaki un brano strumentale tra chitarre e percussioni che poco funziona nonostante la bravura di Jama. Mi viene da pensare che forse un maggiore azzardo produttivo nella scelta dei suoni avrebbe potuto giovare non poco a questo dichiarato omaggio a Kaki Kink. L’album chiude con tre brani dall’approccio più classico: il Rock di To be Arrow (col suo finale forse sin troppo troncato); il bel blues trascinante e quasi paludoso di Fried Cicken House che sicuramente dal vivo farà ancor più bella figura e che sarà uno di brani che piacerà al pubblico più legato a sonorità “americane”; Chapter III che è un classico brano country, un finale piacevole e ben eseguito ma che confonde ulteriormente agli ascoltatori.
Difficile infatti non definire A Process un album di transizione. Difficile perché le prospettive e le direzioni che il trio intraprende sembrano essere le più diverse. E la parola “sembrano” non è messa a caso: quello che cambiano in continuazione sono i vestiti dei brani, non le loro progressioni armoniche. Dietro gli spunti elettronici si vede infatti lo stesso gusto artigianale e genuino che c’era nei loro precedenti album. Certo, a volte i brani sembrano essere un po’ a se stanti e poco armonici tra di loro e questo danneggia la fluidità dell’ascolto. Ma l’unica vera eccezione di questo album è, naturalmente, Ground che ne è anche il gioiello più sorprendente! Molti storceranno il naso davanti a queste affermazioni ma il mio desiderio oggi per il Jama Trio è quello di un nuovo album (o EP) a breve termine in cui sperimentare senza paura questa commistione avventurosa e piena di fascino tra un’elettronica (magari ancora più spinta) e le musiche americane e la psichedelia a cui da sempre il trio è grande interprete. (E se proprio bisogna togliere qualcosa, io toglierei gli spunti prog che spesso affascinano il trio e il suo pubblico ma che tendono a togliere dinamica e freschezza al suono ).