Jabel Kanuteh, Marco Zanotti Are You Strong?
2022 - Brutture Moderne
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Due parole sugli elementi di contesto che suonano meno familiari per l’ascoltatore italiano: la kora proviene dall’area occidentale del continente africano, ha ventuno corde, una cassa rotonda — una zucca su cui è tesa una pelle bovina, magari decorata — e un manico conficcato su di essa. Una specie di liuto, sebbene la cassa e le corde rivolte verso il suonatore la rendano più simile a un’arpa. È lo strumento più di tutti legato alla storia dei griot (Kanuteh è uno di loro), una figura piuttosto complicata da comprendere per noi europei. La definizione più diffusa è quella del cantastorie, ma il griot (termine peraltro coniato dai francesi: nella lingua della cultura Mandingo è jali) è qualcosa di più e di diverso. In una cultura prevalentemente orale, è il custode dell’epopea del sovrano, è la memoria storica. È il maestro della parola, esperto in oratoria tanto da poter dirimere i litigi nella comunità, come una specie di mediatore e custode degli equilibri sociali. Oggi che la sua figura è meno legata alle corti, e che la scrittura allenta il legame fra storia e oralità, il griot anima i riti comunitari ed è un cantore della dimensione spirituale, dei valori e delle contraddizioni della sua terra.
Se per noi la musica è al più un arricchente complemento delle nostre vite, per qualcuno anche soggettivamente necessario, nelle culture africane è impensabile un rituale o un evento pubblico o privato in cui essa non sia essenziale. È solo apparentemente strano che fino all’arrivo degli europei in Africa non esisteva una parola che designasse la musica in quanto tale: “tutto questo si chiama semplicemente Vita”, dice Francis Bebey nella prefazione a un libro prezioso di qualche anno fa, La kora e il sax di Elisabetta Tosi.
Anche dal punto di vista della grammatica e della sintassi musicale Occidente e Africa concepiscono l’arte dei suoni in modi profondamente differenti. Eppure, anche in forza della sua ricchezza espressiva, la kora seduce continuamente i musicisti occidentali. La prima volta che fui sorpreso dai suoi suoni fu nel lontano ’85 quando uscì Village Life di Herbie Hancock con Fodai Musa Suso (anche lui un griot, anche lui nativo del Gambia); la più recente, quando il chitarrista milanese Val Bonetti ha preso a dialogare dal vivo e in studio col senegalese Cheikh Fall. Cos’è che permette a dei musicisti di incontrarsi e dialogare pur nelle loro cornici di senso così diverse, coi loro modi così distanti di costruire significati? Are You Strong? contiene la risposta, per chi ha voglia di ascoltarla. Il segreto è una postura che va al di là della competenza strumentale. È una visione della musica come etica dell’ospitalità. È una capacità di ascoltarsi ed ascoltare, una disponibilità ad entrare dentro la cornice dell’altro e ad accoglierlo nella propria. Probabilmente è qualcosa che ha a che fare anche con un rapporto umano profondo e coltivato.
Se state pensando che tutto questo sia una specie di metafora di qualcosa di più grande, beh, probabilmente ci avete preso. Il titolo dell’album — oltre ad essere il nome di un gioco di carte africano — è proprio una sfida a misurarsi con una possibilità di convivenza e di dialogo: “are you strong?”, sei forte abbastanza? Dove la “forza” è quella necessaria a deporre gli scudi e ad entrare in un mondo in cui non esiste un’integrazione che non sia conoscenza reciproca; ad accettare che le cose che non sappiamo sono assai più di quelle che sappiamo, che quel mistero è una condizione irriducibile e che se vogliamo essere cittadini di questa complessità abbiamo a disposizione soprattutto domande. “Se vuoi sapere perché sono venuto qua, chiedimelo. Se me lo chiedi, ti spiego”, dice Jabel in un momento di un live reperibile da qualche parte online.
Are You Strong? può regalarvi ascolti gratificanti prolungati se accettate il gioco. Se non vi soffermate, cioè, su ciò che trovate noto e familiare, ma se vi affidate ai suoni e vi lasciate incuriosire da quello che non vi aspettate.
Rispetto al cd di due anni fa, qui i confini del duo si allargano ad accogliere altri musicisti. Kanuteh canta e suona la kora e le percussioni; Zanotti la batteria, le percussioni e la m’bira — quello strumento con una serie di lamelle metalliche montate su una tavoletta di legno. Accanto a loro intervengono di volta in volta Kalifa Kone, polistrumentista del Mali, al tamburo parlante, Fabio Mina al flauto e all’elettronica, Federico Squassabia alle tastiere, Gianni Perinelli al sax, Francesco Guerri al violoncello, Stefano Pilia alla chitarra e al basso, Paolo Andriolo al basso, Valeria Nasci ai cori.
Un gruppo nutrito di musicisti che giocano con passione e divertimento il gioco dei due titolari e che partecipano con misura: non accade mai che nell’insieme si confondano le individualità, ciascuna voce emerge nitida e per tutta la durata dell’album si mantiene forte quel senso di dialogo. Piuttosto, l’ensemble è garanzia di varietà, di movimento, di ambientazioni che cambiano e si avvicendano.
L’ascolto di Are You Strong? è coinvolgente, nei momenti in cui starete attaccati alle cuffie per apprezzare le sfumature come in quelli in cui vi sarà più difficile restare lì fermi — anche se ho il sospetto che sia gli aspetti più fisici che quelli più dialogici di questa musica sviluppino il loro valore soprattutto nella dimensione del live. Ma qui dentro c’è già tanto.
Quello che vi chiede un disco del genere è di mantenere aperta quella curiosità e di non cercare conforto in quello che vi suona familiare. Quello che vi promette in cambio è magia e scoperta di nuove possibilità, un mistero che vi donerà tanto di più quanto più rinuncerete a svelarlo e accetterete di stare lì ad ascoltarlo.
Ci state? Siete pronti? Ma soprattutto: siete forti?