Il Parto Delle Nuvole Pesanti Il parto
2004 -
Basti pensare alla rivisitazione di “Ho visto anche degli zingari felici” o al ruolo da musicisti attivi vissuto nel conflitto iracheno, ancora prima che nel cd “Il cielo sopra Baghdad”. O ancora alla partecipazione al tributo a Luigi Tenco, “Come fiori in mare”, che è stato uno dei primi segnali di una rinnovata attenzione nei confronti della nostra canzone d’autore. Ogni esperienza e uscita della band negli ultimi anni è stata contemporaneamente un punto di rottura e di continuità.
Rottura e continuità sono fondamento anche di questo disco, il settimo della band, che è stata sul punto di sciogliersi e che ha scelto di rilanciare impegnandosi ancora più a fondo nella canzone italiana.
“Il Parto” si segnala come il lavoro più italiano di Voltarelli, De Siena e Sirianni - sono rimasti loro tre, circondati da una cerchia di amici musicisti sempre più allargata -, ma si segnala anche come un disco diverso: pur contenendo materiale sufficiente per un album doppio, è venduto con il prezzo e il formato di un unico cd. E soprattutto è colmo di idee cantate, scritte e suonate.
Stando alla media dei tempi, bisognerebbe dire che il disco dura troppo, e probabilmente è così: impatto e omogeneità sarebbero stati maggiori se la scaletta fosse terminata alla quattordicesima traccia, escludendo così le cover di Tenco, Sergio Sacchi e De Andrè. Invece proprio queste sono un’aggiunta di rispetto e di coraggio, congenita a musicisti mai domi, mai a riposo, mai arresi alle logiche del calcolo. Le cover sono solo la parte più visibile, la scorza esterna e dura, del lavoro compiuto sulla tradizione, perchè ogni traccia porta in sè un liquido vivo, leggero e denso, che già partecipa di un contesto umano, di una storia.
“Onda calabra”, scritta per il film “Doichlanda” sull’emigrazione calabrese in terra tedesca, è il nuovo manifesto della spinta che anima la musica del Parto. “Riempire gli spazi”, “Il lavavetri” e “Piccola mia” andrebbero riconosciuti singolarmente, ma è tutta la musica a muoversi nel “cerchio magico del tamburo”, simbolo di uno spirito di comunione sacra e spontanea, sana e ribelle, tipicamente meridionale. L’uso poi di strumenti come oud, lira calabrese, mandola e zampogna dà robustezza alla dimensione etnica, mentre i suoni (Marco Messina) e le voci portati dagli ospiti liberano dalla forma folk. Tra i tanti, Davide Van De Sfroos offre il suo supporto alla critica de “L’imperatore”, Roy Paci indossa le vesti da cerimoniere e Claudio Lolli dona una canzone in segno di gratitudine.
Tanta abbondanza l’hanno ritrovata in pochi oltre all’ultimo Capossela: qua però le canzoni non sono spinte da una manovella, ma da una forza gravida, che preme per provocare la rottura del guscio.