Freddie Hubbard Quintet At Onkel Pö`s Carnegie Hall-Hamburg 1978
2017 - Delta Music-Jazzline / IRD
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Hubbard dovrebbe stare nelle gerarchie d'ascolto del jazzofilo nella stessa posizione dei carboidrati dentro la piramide alimentare: sostanze imprescindibili, da consumare spesso e volentieri. Colonna dei Jazz Messengers di Art Blakey (1961-64), campione dell'hard bop, partner ideale di tanti fuoriclasse, il trombettista si è infilato spesso e volentieri in dischi di importanza capitale (serve citare Free Jazz di Coleman e Ascension di Coltrane?) e ne ha prodotti in proprio: una collezione seria non può fare a meno di Ready For Freddie (1961), Hub-Tones (1962), The Hub Of Hubbard (1970). Con Clifford Brown e Lee Morgan ha definito le coordinate della tromba moderna, intepretandone una sorta di “classicità” dopo la lezione dei capostipiti dello strumento e la rivoluzione bop . In questa registrazione – che fa parte della meritoria e ricchissima serie At Onkel Pö's della Delta Music-Jazzline, con deliziosa grafica vintage – è con il suo quintetto dell'epoca, che comprendeva il sassofonista e flautista Hadley Caliman, il pianista Billy Childs, il bassista Larry Klein (poi marito di Joni Mitchell tra il 1982 e il 1994) e il batterista Carl Burnett. La musica che ne sgorga, in dosi abbondanti (due tracce si aggirano intorno ai 20 minuti...), è densa, energica, muscolare, e scorre nei solidi argini dell'hard bop e del soul jazz, mentre l'onnipresente jazz rock rimane sullo sfondo, evocato da qualche ritmo e dai suoni delle tastiere. Sono tutti stili già molto maturi all'epoca, e Hubbard ne è il vademecum, dimostrando di padroneggiare con sicurezza una tecnica eccezionale. Forse sono i suoi pur bravi partner a non essere alla sua altezza: lo si avverte se si paragonano tra loro i lunghi assoli e si misura il valore aggiunto che riesce ad accumulare, giro dopo giro, il leader.
Il concerto si apre con la funkeggiante e trascinante Love Connection, il cui tema funziona da sigla introduttiva all'intero show. Seguono i colori pastello di Little Sunflower (da Backlash, 1967): il ritmo sudamericano e il flauto di Caliman rendono un po' più esotica l'atmosfera, ma è l'assolo di Hubbard a prendere presto la scena. Provocato dalle accelerazioni dei suoi compari, risponde a dovere alternando parti liriche e cantabili, inappuntabili sequenze squillanti, note prolungate, escursioni nel registro più acuto, qualche dissonanza. Una specie di piccolo master per trombettisti, con finale in gloria e sentitissimi applausi. Lo stesso trattamento lo riserva, quando è di nuovo il suo turno, a One Of A Kind. È la traccia più lunga, e forse eccessivamente debordante: né Caliman né l'allora giovanissimo Childs sembrano avere idee sufficienti per giustificare l'estensione delle loro performance, mentre Klein vira decisamente verso un gusto più rock. I fiati scoppiettano in Take It To The Ozone, che ha una struttura più chiusa: gli assoli vanno a cadere regolarmente su un passaggio ritmico ostinato di basso e pianoforte che ha l'effetto di un detonatore per l'energia di Hubbard. Ma c'è spazio anche per un po' di dolcezza. La dolente Here's That Rainy Day rieccheggia Chet Baker, tra delicato romanticismo e qualche spunto più personale e free.