Francesco Giampaoli Danza del ventre
2014 - brutture moderne
Hunter Thompson chiamava uomini senza patria quei personaggi che poco riusciva a filettare nei primi passi delle sue storie, uomini pieni di cicatrici che dopo aver dissipato coni di terra asprigna in giro per il mondo, inducevano ancora in atti stentorei, rare genuflessioni senza passaporto per dosi incantevoli di giornate. Ecco, se dovessi descrivere l'opera di Francesco Giampaoli, darei ben volentieri la parola a Thompson. Preferirei lui come cronista piuttosto che affidarmi a veli di pennino romanzato o a cronachelle di quart'ordine, dacchè quei loschi figuri da lui ingaggiati su carta erano capaci, nella loro apolidia, di reggere lo sguardo alla rabbia nel medesimo atto in cui il sole tagliava loro il cristallino. Sono tanti gli aspetti esteriori che si vanno ad intrecciare nell'ultimo lavoro del polistrumentista ravennate, a più livelli. Riportiamone in auge solo tre. Il primo a cui possiamo approssimarci è di carattere tecnico strumentale, intrascurabile; da anni infatti Giampaoli ci ha resi edotti sugli strumenti da cui egli estrae oscillazioni, pulizie sonore, riempitivi e vuoti, groove percussivo, fraseggi dialogici. Questo largo ventaglio permette scelte più che energiche in fase compositiva e di sovraincisione plasmando uno stile, non nel senso cosmetico del termine, ma nel suo valido principio sinottico, iniziatico oltre che terapeutico. Un secondo livello, abbarbicato sul primo, è di carattere puramente sensitivo; per rielaborare Danza del ventre non basta la descrizione per metonimia o l'immaginifico, bisogna agganciare con forza e prudenza le sensazioni che scollate dal costame diventano poi appellativi, giocoforza generi, ma che ad un piano antifiltro rimangono eteree percezioni, come in un olio su tela di Baziotes (avete presente Cyclops?). Vibrazione temperata dell'organo elka, vibrazione fisica e shiver della Elli sound e del micromoog, limpidezza della Wandre, ritmi terzinati del bajo, polifonia del farfisa, distanze e groove dati dalle percussioni (conga e quinto da un lato, calebas e nacchere dall'altro). Un terzo livello presuppone una conclusione - quando vedremo che in realtà non sarà così - ed è il risultato dell'impasto e dei toni scelti. Un marchio vintage e sixties si mescola al tropico, uno genericamente mex-popular aggancia l'afrobeat, uno postmoderno trova circostanziati i raga, elettronica sparsa (ghostly trascinando, punaise e dubberia). Un ritorno al primo livello ora mi è dovuto poiché le sezioni (fiati, percussioni, corde) diventano sezioncine, l'armonia che esala dalla palude lascia posto alla bellezza che si manifesta dal creolo dei timbri, seguitando nell'ottica minimale (suoni alti misto acuti, clavi, dripping di quaver nei fiati, effettistica). Due le conurbazioni (Rosa e Firma) non proprio leitmotiv, ma il senso è lì. Tre individuali-one man polistrumentali (Pugni al sacco, Mischio, Riflesso) con tre rispettivi disegni d'accompagnamento [pop, blues, da preset flauto basso(?)] e il cerchio sembrerebbe chiudersi. Ora, per non perderci nella penombra che è data nell'atto in cui di inconsueto vestire ci si veste, c'è da dire che la patria di Giampaoli è un po' qui e ora, un po' là e un po' qua e sta a noi decidere in che ambito circoscriverla, come poteva accadere incontrando fra i piedi un Renè Aubry, un John Cage, un Robert Wyatt, figli, figliastri e patronimici (come il Nostro con Riessler). Per caldeggiare anche con timore la sua bandiera così tanto antifigurativa, accade in certi momenti che quella patria, sulle prime attigua, si scosti quel tanto che basta per renderci tristi del vuoto creatosi e curiosi di seguirla al contempo. Per l'appunto, dosi incantevoli.