Flame Parade Cannibal Dreams
2023 - Materiali Sonori
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In questo senso, ad indicare una “nuova” via, è legittimo celebrare Matilde Davoli, sound engineer ormai navigata e presenza forte in questa release, tanto nel dietro le quinte quanto nelle battute in avanscoperta. Muove i fili un po’ ovunque: si consideri l’incastro di Dahlias, sbucato dal nulla con un fosco arpeggio in Chorus/Flanger e poi immesso in decise inflessioni shoegaze griffate M83.
Da qualsiasi angolazione lo si “guardi”, Cannibal Dreams non sfugge a quell’eterea cifra stilistica che ha laccato di gloria uno sterminato elenco di uscite 4AD, storica label britannica. Pescando a caso, potrebbe dirsi per l’innegabile afflato a padri quali i Mojave 3; o, in egual misura, per il forbito lemma dei Blonde Redhead di 23, a cui molto deve il trittico iniziale (con una December che vede quasi tingersi di epica da stadio).
Nel percorso dei Flame Parade, si diceva, c’è un prima e un dopo. In One of These Days I’ll Steal Your Heart (primo singolo estratto dal video prossimo ai “layout” della Italians Do It Better di Johnny Jewel), tuttavia, zampilla ancora una sorgente alt-country/folk, il cui emozionante canovaccio ha in quella voce di apertura e nel morbido galoppo successivo i geni di due moderni alfieri del genere quali Phosphorescent e Timber Timbre.
Con People, delicatissimo abbraccio fra piano e voci, ci si avvia al corpo secondo del disco: una china in ammaraggio su un puntino della mappa, luogo fatato e sospeso, un po’ spettrale, incrollabilmente dreamy, dimora in condivisione fra Antlers e Piano Magic.
Di lì in poi l’enfatico valzer di voci: si incastrano, si sovrappongono, si cercano all’unisono, reclamano il palpito di ballate d’altri tempi. Ne rispolverano, con tempismo e disciplina, l’anima suadente, in un’armoniosa altalena di canti e registri. Modello declinato in South Sunset e Loving (Each Other) A Bit, i cui frutti inducono a fantasticarne la benedizione di certi Raveonettes, fino quasi a tessere le trame di Lost, portento di Trentemøller, in quei lampi in cui Jana Hunter e Marie Fisker ne prestano un talento di eleganza sartoriale.
In questo filotto votato al lirismo, non tutto è rose e fiori: Ballad of the Ghost, edificata su un arpeggio melodicamente ineccepibile, pecca in chiassosi arrangiamenti, gravando un po’ sulla bellezza dell’intero pezzo, con l’esito di comprometterne una soluzione di scrittura fondamentalmente indovinata. Un riscontro più o meno simile registrato poi nell’atto finale (This Changes Everything), che si affranca però per mano di una splendida prima parte piano/voce affidata a docili e misurati battiti di rullante.
Si chiude così un disco complessivamente riuscito, ammirevole per il modo in cui si colloca in un’epoca tempestata di mediocrità e, vivaddio, nella quale svetta per qualità compositiva e brillanti richiami persuasivi. Avercene.