Desert Sessions The desert sessions 9 & 10
2003 - IPECAC RECORDS
Sarà per via della quiete del deserto o per l’attrazione esercitata dall’estremità del luogo, comunque il suo laboratorio è cresciuto fino ad essere frequentato dal meglio del rock alternativo degli ultimi anni.
Le rinomate “Desert sessions” sono così arrivate al nono e al decimo capitolo. Proprio come in una serie, ogni episodio genera il successivo e il mondo delle news vocifera che il prossimo sarà centrato su Greg Dulli e Mark Lanegan.
È già stata invece archiviata la notizia della presenza di P.J. Harvey, nonostante siano trascorsi pochi mesi dalla pubblicazione di questo cd. Ma per quanto i media continuino ad accellerarne i corsi e ricorsi, la musica non evapora e non corre al tempo delle news, figuriamoci in un luogo tuttaltro che frenetico come il Joshua Tree.
Essendo poi proprio il tempo il miglior giudice della musica, conviene soffermarsi su quei dischi che tornano e ritornano, come un ronzio ossessionante, che richiedono mesi prima di lasciarsi afferrare. A maggior ragione su questo “Desert sessions vol. 9 & 10”, che proviene da un luogo in cui il tempo scorre lento, quasi immobile.
Potendosi permettere di ignorare anche i tempi dei discografici e di fare ciò che vuole, Josh Homme ha lasciato che la collaborazione con P.J. Harvey venisse liberata in questo cd, quando invece sarebbe stata molto più redditizia se pubblicata, con adeguata promozione, in un disco dei QOTSA o della stessa P.J.
Homme si è poi preso ancora più libertà: già nei QOTSA si trovavano tracce di grunge e stoner arricchiti con strumenti inusuali, come succede in “Dead in love” (mandolino, clarinetto e flauto) o in “Subcutaneous Phat” (le voci del Vienna Girl boys Choir), ma qua ha osato giocare anche con le vibrazioni del basso, con drumming kit e fun machines, finendo per dividere il disco in due parti (9 & 10), neanche tanto ideali (“I see you hearin’ me” e “I heart disco”).
Ne derivano una frammentarietà e una precarietà, che portano con sé qualche calo di tensione, ma che suonano molto “wild”, quasi fossero la prova del carattere spontaneo e sperimentale delle sessions. In condizioni del genere ha senso pure un episodio trascurabile come la bonus-track, uno scherzo corale, che coglie l’essere “fuori”, fisico e spirituale, del luogo e dei presenti.
Tra uno stoner che gratta furioso, come una bestia ferita e assetata, e un folk allucinato, in preda alle visioni, è la voce di P.J. Harvey, che da tempo non si sentiva cantare e osare così, a portare tutto a livello di “trip mistico”.
Per arrivare al capolavoro assoluto mancano solo Mark Lanegan e il compianto Layne Stanley degli Alice in Chains: ma sarebbe stato chiedere troppo agli dei.