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Rock Internazionale

Damien Rice 9

2006 - 14th Floor

20/11/2006 di Luca Meneghel

#Damien Rice#Rock Internazionale

È quasi doloroso scrivere certe recensioni, è quasi doloroso trovarsi a metter giù parole che non avremmo mai voluto (o pensato di dover) scrivere. Quando poi l’oggetto della recensione si chiama Damien Rice, che esordì con “O” e dunque con uno dei dischi più belli degli ultimi anni, le cose sono ancora più difficili. Eh sì perché dopo l’esordio, dopo i suoi meravigliosi concerti, dopo quel contentino pieno di gioielli chiamato “B-sides”, l’attesa per il secondo disco in studio era spasmodica. “9” è arrivato a inizio novembre, in concomitanza con il singolo di lancio “9 crimes” ed è un altro disco cartonato giallino, sempre esteticamente impeccabile con quei disegni color pastello ai quali Damien ci ha abituati.
Si parte bene: “9 crimes” riprende direttamente “O”, segna subito un bel duetto con Lisa Hannigan e riporta alla dolce malinconia della quale Damien ci ha fatti innamorare; come musica un semplice piano, come voce la solita soavità disarmante: l’intensità cresce, c’è un intreccio delle voci dei due per poi tornare alla lentezza iniziale e chiudere definitivamente il cerchio. Questo l’inizio, poi accade qualcosa: l’anima che ancora respira in “9 crimes” sembra uscire definitivamente dal corpo e i pezzi successivi, o perlomeno buona parte di essi, sono asettici, senza pathos.
Scorrono le canzoni: “The animals were gone” è quasi tutta voce, la musica è soffocata, dimenticata in un angolino; “Elephant” fuga ogni dubbio sulle capacità canore di Damien (e certo nessuno ne dubitava), ma anche qui mancano l’intensità, la musica, la melodia; “Dogs” è carina, ma nulla più di una semplice b-side; “Me, my yoke + I” è il momento peggiore del disco; “Accidental babies” e “Sleep don’t weep”, che chiudono le danze, sono molto simili, lentissime e sempre solo deboli veicoli d’emozioni.
Non tutto è da buttare e la delusione è dettata più dall’inevitabile paragone con quel capolavoro che era il suo predecessore che dal disco in termini assoluti.Vorrei dunque segnalare quelli che sono i quattro momenti migliori dell’album: prima di tutto l’opening (e title) track. Poi “Rootless tree”: particolare e vivace, propone una valida alternanza ritmica tra strofe e ritornelli (nei quali Damien ci sorprende, gridando all’impazzata “fuck you, fuck you, fuck you / and all that you do”: provare per credere!). Seguono la semplice “Coconut skins”, voce su limpida chitarra acustica, e infine la triste, malinconica e rassegnata “Grey room”, che ci riporta un attimo alle atmosfere di tre anni fa.
Questo è il nuovo Damien, con le sue luci e le sue ombre. Le domande, senza troppo girarci intorno, sono queste: dov’è quel connubio tra voce e musica che lo aveva reso grande? Dov’è, molto più semplicemente, quella musica forte che toglieva il fiato? Mettiamola così: dove sono “The blower’s daughter”, “Delicate”, “Cannonball”, “Amie”, “Cold water”? In “9” non c’è nulla di simile.
“9” è un altro disco: dietro c’è un’altra storia, dietro c’è forse una perdita d’ispirazione da parte di un artista che continua a cantare da dio e tantissimo deve ancora dare alla musica. La delusione c’è, inutile negarlo, ma aspettiamo fiduciosi e in attesa del terzo figlio godiamocelo live.

Track List

  • 9 CRIMES|
  • THE ANIMALS WERE GONE|
  • ELEPHANT|
  • ROOTLESS TREE|
  • DOGS|
  • COCONUT SKINS|
  • ME, MY YOKE + I|
  • GREY ROOM|
  • ACCIDENTAL BABIES|
  • SLEEP DON’T WEEP

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