Se nei primi lavori da carboneria (Hunt like devil-Jamz e Psychic Psummer) gli spigoli toccavano tempi atomicamente motorik, oggi quel 4/4 aeriforme recita la battuta di un teatro di scena dal segno immaginifico e agita proposizioni ritmiche su intagli più diretti e liriche sciolte. La combinazione reattiva si era già avuta con il precedente Neverendless, oggi aggiunge più gusto al piatto una naturale foga di psych funk ed è così che nascono suite dalle locuzioni aperte come Slow bern e Shikaakwa, silhouette lunghe e bolle espanse, lumi bardi (Rob Frye al flauto) e finestre latin jazz (Josh Johannpeter alle percussioni).
Coloratissima la miccia che si innesca tra gli ostinati di Rex Mcmurry alla batteria e la sintassi lisergica dell'organo sfruculiato da Cooper Crain - sono ragguagli di armonia estatica quelli che palpitano nelle prime battute di Sweet fingers - e a ben vedere il groove e i lick di Dan Browning al basso e di Jeremy Freeze alla prima chitarra tirano il quarto beat sempre “avanti” con una leggera oscillazione di tempo rispetto al tema. Se ne deduce che l'articolo migliore di questo Threace è la bravura nel saper osare d'istinto all'interno di una chiave data che di per sé normalizzerebbe l'ingegno su un tempo gettonato. Il disco perfetto non ha ragione d'esistere, ma in questo caso i Cave hanno fatto il disco più completo in loro possesso, lasciando da parte ansia bruna da prestazione e tirando fuori più anima che materia dallo score rispetto al passato.