Big Harp White Hat
2011 - Saddle Creek
Basta guardare la grafica della copertina e del booklet per capire le coordinate all’interno delle quali si muovono le undici tracce scritte e suonate dal duo, marito e moglie, formato da Chris Senseney (voce, chitarre, tastiera) e da Stefanie Drootin Senseney (cori, basso) e prodotto dal bassista dei Rilo Kiley.
È musica da saloon, da polvere e sabbia tra i denti, da hobos solitari, da migranti con un fagotto di ricordi tristi e di rimpianti sulle spalle. Nonostante il disco sia stato registrato in pochi giorni in California, la matrice di profondo Midwest e l’anima delle Great Plains pervade le storie dei personaggi descritti dalla voce calda ed un po’ arrochita di Chris Senseney.
White hat ha una struttura circolare: la prima canzone, che si intitola Nadine, racconta gli amori sfortunati di una giovane ragazza che per seguire i suoi sogni va in California, ma scopre solo il lato amaro della vita, mentre l’ultima canzone, che si intitola Oh Nadine, è una lettera del padre che le racconta gli ultimi sviluppi della vita del suo paese e spera di poterla rivedere presto, illudendosi che il suo silenzio derivi dal fatto che la fortuna le stia sorridendo. Tra questi due estremi di illusioni per un futuro migliore e speranze disilluse dal presente ci sono una serie di ritratti di personaggi che sembrano usciti dai libri di Steinbeck o del più contemporaneo Lansdale.
Everybody pays è un brano consolatorio che, con un riff acustico ripetitivo e semplice, ci dice che prima o poi la ruota gira per tutti. Goodbye crazy city è una ballata in puro stile folk che parla di un’anima inquieta delusa dalla vita di città, in apparenza scintillante e piena di possibilità, ma in realtà feroce e spietata con i sognatori e i deboli. All bets are off è un pezzo graffiante e ruvido in stile country rock perfetto per un saloon diroccato con segatura bagnata di alcool e bicchieri di whisky che si scontrano sul bancone. Some old world I used to know è una canzone lenta e malinconica da falò notturno con un gruppo di vagabondi che, dividendosi il poco che hanno, si raccontano le loro storie di fallimento. Out in the field è un blues carico di tensione, forza e rabbia che sembra richiamare sia nelle immagini, sia nella musica un rito voo-doo.
Queste storie di marginali conquistano grazie alla capacità di dosare i
principali ingredienti del folk, del country, del rock e del blues in modo da toccare sapientemente le corde del cuore dell’ascoltatore.
White hat è un gran bel disco, magari non originale, ma sicuramente sincero, sentito e ricco di buoni sentimenti. Basta chiudere gli occhi sulle note di una delle canzoni, ad esempio Here’s hoping o Let me lend your shoulder, e per magia si viene trasportati sulla sedia a dondolo di una veranda con la palla di fuoco del sole al tramonto proprio di fronte ai nostri occhi, che disegna ombre da interpretare sulle rocce rosse all’orizzonte.
È un posto dal quale non si vorrebbe più tornare, fidatevi.