BC Camplight The Last Rotation of Earth
2023 - Bella Union
#BC Camplight#Rock Internazionale#Alternative #Alt-rock #folk-pop #Songwriter #alt-pop
Relegato all’ignoto l’impulso che dà vita a tale scatto. Forse un atto teso a esorcizzare i fantasmi di una relazione di lungo corso andata in frantumi. Come riportato sulle pagine della Bella Union, il cui sodalizio è ormai lungo 4 dischi, le minacce alla sua salute mentale, in seguito all’accaduto, hanno rischiato di compromettere un intero prodotto artistico, la cui “revisione” ha comportato l’accantonamento del 95% del materiale fin lì concepito ed elaborato. Per cui punto e a capo.
Prima ancora di trasferirsi a Manchester, città che gli ha letteralmente “salvato la vita”, l’”insegna” di Christinzio riportava B.C. in luogo di BC. Erano i tempi alla One Little Indian, di copertine allegoriche e ironiche, di acquerelli psych-folk & surf in cornice. Già dal secondo album, in realtà, il sound deviava e maturava, disseminando qua e là pop ballads, cenni vaudeville, orchestrazioni, prog-pop. Cambio di passo poi completato in Bella Union (anche per le cover: alle rappresentazioni disegnate si preferisce la fotografia), che inaugurerà la stagione della "trilogia di Manchester".
The Last Rotation of Earth si presenta in smoking col brano eponimo: un’elegantissima ballata pop pianistica che lenisce le ferite. Tempo quattro minuti che la stessa si schianta al suolo: una brusca e lancinante esplosione riporta il dolore al centro di tutto, col chiaro intento di non passare inosservato. Di nuovo il dramma nella musica del Nostro, inscenato a tutto spiano da The Movie (impasto di incursioni orchestrali da solenne opera rock su un imponente muro del suono). Seguono intime foschie in punta di fioretto (It Never Rains in Manchester), imbottite anch’esse di densa teatralità.
Per come condotta e governata, la sequenzialità dei brani fa rimbalzare da parte a parte. Ad ogni angolo si scorge sgomento, poi salvezza. Dai barocchismi à la Divine Comedy si levano le instant ballads del Gruff Rhys più ispirato.
Uno solo l’episodio minore, quel Kicking Up the Fuss in sella ad un dinoccolato giro catchy di synth. Che vuoi che sia al cospetto di un disco che, per chi scrive, è fra i più coesi e profondi dell’anno in corso, intriso com’è di tragedia ed emozioni, di rotture e suture. Se per dirla con Eschilo, “Il dolore è un errore della mente”, Christinzio si affanna a correggerlo con la sua struggente creatività. Un fiume in piena. Baciato da una gemma. Perché sì, lo è, Fear: Life in a Dozen Years, stella nel firmamento, nodo alla gola, inno al romanticismo in quel suo ritornello dalle cui labbra chi non penderebbe (con il blitz di un bridge a sei corde dal riff heavy ad anticipare il prodigio)?
Chiusura perfetta: si prenda il piano commovente di Hand Covers Bruise (Trent Reznor and Atticus Ross), lo si asciughi dalla mole di effetti, lo si inzeppi di solo chorus fino quasi a scordarlo, fino a renderlo sbilenco, in una dimensione catartica, trottante ma non troppo, al ritmo incerto del cocchiere. Giù il sipario. Giù il cappello.