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Angelo Branduardi Il rovo e la rosa. Ballate d`amore e di morte.
2013 - Lungomare/Universal Music
E in mezzo a tutto questo, i primi giri (in principio) e la consacrazione (poi) di Angelo Branduardi da Cuggiono (mica dalle Highlands), sotto mentite spoglie di menestrello, di cantautore anomalo, a sparigliare le carte discografiche del tempo. A raccontare di topolini alla fiera dell’est, pulci d’acqua ladre di ombra, favole di aironi, prime mele, cervi, poeti di corte, abitatori di un tempo smarginato, sospeso, altro che l’hic et nunc della politica.
Ora la domanda, pure se pleonastica, sarebbe questa: quanto coraggio e/o incoscienza e/o autostima occorrono per operare fino a tal punto in controtendenza? (“mi piace che mi grandini sul viso/ la fitta sassaiola dell’ingiuria” canta il Nostro in Confessioni di un malandrino mutuando da Esenin). Andrebbe altresì evidenziato in ideale giallo-anti nebbia: dietro la patina finto confetto le ballate branduardiane assemblano zone d’ombra come nuvoloni temporaleschi in un cielo di primavera. Scarti inquietanti della fantasia, in grado di evocare fantasmi, sollevare incertezze, incidere solchi, buchi neri nell’anima.
Attingendo soprattutto alla tradizione colta e alle ballate folk del Nord Europa, Angelo Branduardi - come ogni cantare di miti che si rispetti - ha sempre girovagato intorno ai temi della metafisica e dell’ontologia, ha reso antropomorfi elementi naturali e/o animali, e finanche la morte. Ha coniugato le diverse stazioni della vita - crescere, amare, gioire, sognare, soffrire, ridere, estinguersi -, interessato al dentro piuttosto che al fuori dell’essere umano. L’esistenziale piuttosto che il sociale.
Adesso tenetevi forte, perchè questo superlativo Il rovo e la rosa. Ballate d’amore e di morte si (im)pone come la summa del suo specifico, tematico e musicale, e – fidatevi – non sono parole grosse. Undici tracce per un cd impeccabile, rarefatto, ammaliante come il vetero-menestrello non ne tirava fuori dai tempi del capolavoro Branduardi canta Yates.
Un disco piantato a cavallo dei Futuro Antico e della discografia più pop (per così dire), che pesca scopertamente dalle ballate del periodo elisabettiano (1558-1603), restituite in forma e sostanza filologica, senza fronzoli né forzature aggiunte. Si ascolti in tal senso una Mary Hamilton nella variante, se possibile ancora più incisiva di quella che era in Cogli la prima mela (Ninna nanna). Oppure Rosa di Galilea, qui tradotta pedissequamente (Luisa Zappa) rispetto al Ciliegio di La pulce d’acqua. In quest’album felicemente fuori tempo e contro-tendenza, folk che più di così solo le songs anglo-scozzesi doc, dialogano mirabilmente chitarra e violino, e l’armonica a bocca convive con l’arciliuto. Poi la voce (l’interpretazione) di Branduardi riesce a fare tutto il resto, trattenendosi qua e là intono a storie di uomini smarriti (dietro chissà quale sfida) e navi pure, perdute nell’oceano (Baidin Fheilimi, Silkie), lady esotiche che reclamano il grande amore lontano (Lord Baker), altre dannate per troppa avidità (Il falegname).
Come sintetizza il cantautore medesimo “Uomini e donne autentici (…) perché reali sono i loro sentimenti, primordiali, senza sfumature…sono marinai che si perdono, inseguendo il miraggio del passaggio al Polo, o donne fragili e forti, come la ragazza turca che attraversa il mare per reclamare il suo amore. Sono peccatori come Mary Hamilton, che abbandona il suo bambino e salirà al patibolo, o la moglie del falegname, che cedendo alla vanità dell’oro troverà la via dell’Inferno. Sono “diversi” come Silkie, che sulla terra è uomo, ma in mare torna ad essere una creatura misteriosa e remota, o come la sorridente ragazza del ciliegio, la Rosa di Galilea che porta in sé il mistero più grande. Sono amanti disperati ed impossibili come Barbrie Allen ed il suo lord, amanti che solo la morte potrà unire, avvinti in un nodo d’amore, come il rovo e la rosa”. Appunto. Il rovo e la rosa, poli opposti e aspetti intrinseci della stessa medaglia al contempo. Come dire yin e yang, eros e thanatos, amore e morte, salvezza e perdizione, nel modo paradigmatico di Barbrie Allen, la copiosa ballata che chiude il cd e che manderebbe in sollucchero Freud in persona.
Prima dei sacrosanti credits finali (si vede e si sente che il disco è suonato – vivaddio – da musicisti veri), un’ulteriore menzione va alla Suite per arciliuto e voce che lega allo stesso filo rosso musicale la deandreiana Geordie, il classico Scarborough fair (comparare, se si vuole, con la versione di Simon & Garfunkel) e Greensleeves: idem come sopra per la resa qualitativa. Come promesso, ora tocca al cast che ha concorso all’aura di un album sontuoso: Rossella Croce (violino barocco), Maurizio Fabrizio (chitarre), Leonardo Pieri (tastiere), Davide Ragazzoni (percussioni), Francesca Torelli (arciliuto), Fabio Treves (armonica), Katia Astarita (voce in Lord Baker). C’è anche Angelo Branduardi - naturalmente - contiguo ad un violino più spiritato che mai, come nella più classica delle iconografie. Dieci e lode.