Afghan Whigs Do To The Beast
2014 - Sub Pop
Quando gli Afghan Whigs nel 1998 uscirono con l’album 1965 l’aria era ancora intrisa dalle ceneri del grunge, e non era ancora del tutto stato elaborato il lutto per la morte di Kurt Cobain, icona di una generazione di musicisti incazzati e, a modo loro, ribelli, che comprendeva, tra gli altri, gruppi seminali e artisticamente probabilmente più validi dei Nirvana, come Screaming Trees, Alice in Chains, Soundgarden, Pearl Jam e Mudhoney.
L’accostamento degli Afghan Whigs con quella scena, ad onor del vero, è sempre stato un po’ forzato e figlio della mania di etichettare ad ogni costo un artista o una band per renderli più riconoscibili e appetibili sul mercato discografico.
Innanzitutto gli Afghan Whigs non venivano da Seattle ma da Cincinnati, e poi, questione ancora più importante, avevano poco a che fare col grunge in senso stretto, e più che dal Seattle Sound sembravano maggiormente attratti dai suoni del soul di matrice Motown e affini.
I sedici anni trascorsi dall’ultimo lavoro in studio non potevano non sentirsi, e sarebbe stato strano e ingiusto il contrario.
Il tempo scorre implacabile e con esso si accumulano le esperienze e gli incontri, ed è del tutto naturale che tutto ciò influisca sulla personalità e l’ispirazione degli artisti, specie se nel frattempo ci si è avventurati in esperienze musicali differenti.
In questo senso Greg Dulli ha ingannato l’attesa per la reunion della sua storica band attraverso i progetti Twilight Singers e Gutter Twins (con Mark Lanegan).
Nei cambiamenti occorsi agli Afghan Whigs non vi è però traccia alcuna di smarrimento. Anzi, sembra che la band abbia semplicemente ripreso un percorso soltanto momentaneamente interrotto, rimettendosi in cammino con in più il peso delle nuove esperienze, e con accresciute consapevolezza e maturità.
I fasti di album come Gentleman, Congregation e Black Love sono ormai alle spalle, e ci hanno lasciato memoria di un gruppo arrabbiato e carnale proprio perché giovane, e quindi più votato all’istinto che alla ragione.
E infatti Do The Beast ha un carattere maggiormente cerebrale, perché se da un lato in alcuni frangenti conserva intatta l’antica energia, dall’altro lascia anche spazio a brani nel complesso più meditati e razionali, sia nell’impostazione musicale che nella scrittura dei testi.
E nel frattempo quell’urgenza di elaborazione di quella sofferenza figlia dell’insofferenza sembra essere divenuta meno feroce e cattiva per mutare in un approccio più malinconico e sensuale.
Sensuale come la musica della band di Cincinnati, come la voce di Greg Dulli, e come quel soul che viene spesso chiamato in causa dagli Afghan Whigs con rimandi neppure troppo accennati.
Che qualcosa sarebbe cambiato lo lasciava pensare anche il parziale cambio della line up, che ha visto la fuoriuscita del chitarrista Rick McCollum a cui sono subentrati Dave Rosser, Jon Skibic e Mark McGuire, così come la nutrita presenza di collaborazioni, tra cui un mito del soul come Van Hunt , Alain Johannes, Clay Tarver, Dave Catching, Patrick Keeler e Joseph Arthur.
L’inizio di Do The Beast è energico e potente, Parked Outside lascia prima cantare la chitarra con un riff diretto e massiccio, poi la voce di Dulli che si inserisce con la stessa forza esplosiva.
Nel complesso le tracce di notevole spessore sono parecchie, in un album con pochi cali di tensione emotiva e che spicca anche per arrangiamenti molto più elaborati e ricercati rispetto alla ruvidezza del passato.
Da segnalare Matamoros, che racconta attraverso atmosfere arabeggianti amori tormentati e difficili, passando per It Kills, nella quale Van Hunt tesse trame vocali fitte e molto intense, fino al primo singolo dell’album, Algiers, dal suond vagamente spagnoleggiante, nel quale Dulli regala emozioni attraverso la sua splendida e cangiante voce.
Nella seconda parte dell’album c’è spazio soprattutto per tracce dall’impostazione più intima come Can Rova, Lost In The Woods e These Sticks, che segnano il passo con la raggiunta maturità della band e nelle quali al posto della rabbia si palesa un sentimento più complesso, tendente più alla riflessione introspettiva che alla rabbiosa rivendicazione.
I testi di Do The Beast riescono a ricordarci quanto il talento di songwriting di Dulli sia raro e completo, specie per la sua capacità di scavare con profondità nell’animo umano e raccontarlo con sensibilità ed attenzione.
Do the Beast non è di sicuro la miglior prova della band di Cincinnati, ma di certo rappresenta un disco di gran livello che lascia sperare che gli Afghan Whigs possano ancora offrire molto ad un mercato discografico che oggi più che mai ha maledettamente bisogno di maestri.