live report
Patti Smith And Her Band Prato / Piazza Duomo
Concerto del 26/07/2013
BEATNIK PUNK: PATTI SMITH, INFINITA COMUNICATRICE
Quindici mesi dopo l’uscita di Banga, Patti Smith torna in Italia, e porta il meglio di sé nel cuore della sua amante di quest’ultimo decennio, la Toscana. Un rapporto ambiguo e viscerale, iniziato con lo storico concerto a Firenze nel 1979, un trionfo e un’epifania di bellezza che sembrò straziante quando pochi mesi dopo il Patti Smith Group annunciò il ritiro dalle scene. Tornata un quarto di secolo dopo nella culla del rinascimento, in quel concerto a piedi scalzi e lacrime del 2004, Patti Smith sembrò a quel punto aver fatto pace e chiarezza con quel fulgore, sentendolo finalmente gestibile, assimilabile. Ed essendo un’artista che non dimentica i luoghi dell’anima, né lì mette in gerarchia con la propria New York, Patti Smith è tornata periodicamente in questi anni in terra medicea, ogni volta con una rivelazione. A Prato nel 2007 fu protagonista di un proto-secret concert nella romanica chiesa di San Francesco, nel 2009 si esibì in Piazza Grande ad Arezzo dove instaurò una formidabile collaborazione con la Casa del Vento, la folk band aretina che è riuscita sia ad avere Patti nel proprio “Articolo Uno”, sia a comparire in ben due brani dell’ultimo album della sacerdotessa del rock. Tornare a Prato si rivela quindi una conferma, un chiudere il cerchio passando dal reading chiesastico al live in grande stile, nella piazza più rappresentativa della città.
La serata viene aperta con un altro frutto toscano generato dai semi della cantautrice: l’open act è affidato ad Alberto Mariotti, ex Samuel Katarro e adesso impegnato nel progetto “King of Opera”, benedetto da sua divinità Patricia in occasione del fiorentino Rock Contest 2009.
A seguire, in dieci minuti, si presenzia sul palco una magnificente signora con un cappello a larga tesa, che si posiziona davanti al pulpito di Donatello e immobilizza il tramonto. L’afflusso di spettatori si blocca, le lunghe braccia di Patti si alzano, come un demiurgo pronto alla creazione. Partono gli arpeggi ruvidi del fido Lenny Kaye e la messa poetica può dirsi iniziata.
In realtà, se qualcuno vuole capire Patti Smith, cos’è che la rende unica, insuperabile autrice di letteratura onnivora e magistralmente composta, basterebbero i dischi. L’impatto totale, la collisione di suono e linguaggio ha un effetto esaltante sull’ascoltatore, che diviene immediatamente fruitore attivo. Ma partecipare a questo equilibrio su un piano performativo diretto, a qualcuno può cambiare la vita.
Ribaltando quanto scrisse una volta Gilbert O’ Sullivan, “I’m a writer, not a fighter”, di Patti Smith potremmo dire che è un attivista, prima che una scrittrice. La poetessa punk-beatnik canta, discute, testimonia e dissemina la sua strada di sempre nuove serie di esplosivi. Nuovi personaggi si uniscono ai confermati, al di qua (un omaggio al “cuore rivoluzionario” di Papa Francesco) e al di là (“Frederick” per Sonic Smith e “This Is the Girl” per Amy Winehouse). Patti Smith non è al centro di una rete, ma è la rete stessa, questa è la magia delle visioni che sa evocare e comunicare, e il segreto dietro alla capacità di incoraggiare un pubblico sempre più anagraficamente eterogeneo a rinnovate manifestazioni di libertà e verità (da antologia la ola di 4.000 persone su “People Have the Power”).
Qui non vi è la maratona fisica di un concerto del boss, o la scoglionaggine irritante del Dylan degli ultimi anni, è assente l’inquietudine permanente di Lou Reed, ma anche l’autocelebrazione preda da maquillage e tinte di capelli tipica di tante matrone del rock. Patti Smith è sempre stata oltre le tipizzazioni, non si è mai innamorata delle luci del varietà negli anni d’oro, e lo dimostra come, in una specie di competizione evolutiva, sia sopravvissuta lei e non il “modello” Janis Joplin.
Patricia Lee Smith è diventata una rocker a trent’anni, dopo aver già colmato e smaltito tutta la valigia degli eccessi: a trentacinque aveva già realizzato quattro best-seller, si era sposata e poteva ritirarsi a vita privata. Per questo si è potuta permettere di tornare a cinquant’anni a infiammare un palco dopo l’altro del pianeta, per questo a quasi settant’anni è sensuale e fresca come una miracolosa esordiente. Non si è mai fatta ingabbiare, né dal ribellismo, né dalle lusinghe di un’esigente pedigree artistico. Può farti un bis con “Because the Night” o con l’ultimo singolo “April Fool”, per lei “It’s just the same”: il contenuto e la forma sono relativi, quel che interessa è la comunicazione, lasciare un messaggio. Si può dedurre che sia una donna al passo con i tempi dell’istant message e della santificazione di Steve Jobs, ma è anche una persona che s’impone una dimensione “wild” che potete a vostro piacimento tradurre con “selvaggia” o “selvatica”. Così, quando si ferisce con le corde della chitarra, afferra d’istinto una t-shirt del suo merchandising, la strappa e si arrangia una medicazione. Tutto a posto, anzi l’umanità viene sublimata da un savoir faire inarrivabile. Poi alza le dita affusolate sulla folla, in euforica attenzione, e chiude il concerto con un monito: “Use your Voice”.
In quest’era bizantina, quanto serve un’educazione all’eleganza selvatica.