live report
Jazz Is Dead Torino / Bunker
Concerto del 26/05/2023
Qui entrano in campo i distributori di patenti di jazzità che -per carità!- possono pure avere ragione. Un sacco di cose in Jazz Is Dead non sono jazz. Qualcuno potrebbe saggiamente rispondere: «E allora?». Alla fin fine, mica il jazz è più unto dal signore di altre musiche. Qualcun altro potrebbe anche aggiungere che in Jazz Is Dead non ci sono neanche concessioni al facile per far soldi; mancano i “Venditti in jazz”, o i “Battisti in jazz”, mancano i cantanti italiani “bolliti”, che si riciclano in versione pseudo-swingante o gli omaggi per fare “marchette”.
Eppure sono cose che si vedono parecchio in giro anche quelle. E poi va detto che il festival è gratis. Si entra con la tessera ARCI e al limite si può contribuire con la formula “up to you”, ma le persone preposte alla questua sono gentilissime e non chiedono con l’insistenza di certe sette religiose.
Il maggior contributo che può dare un volenteroso risiede nella consumazione abbondante di birra e panini. Prendo la pastiglia contro il reflusso e mi sacrifico anch’io, in nome della musica e della cultura.
Abbiamo detto della parola “jazz”, abbiamo detto del “dead”. Manca “Is”, e non posso sperare di sfuggire agli accigliati critici della purezza, che di ogni cosa vogliono chimicare tutto. Prendiamola larga. Sto leggendo un libro. Che novità! L’ha scritto Ted Gioia che è un critico jazz tra i più acclamati al mondo. A me personalmente non piace sempre quello che scrive: L’arte imperfetta era affascinante, ma un po’ cialtronesco, la sua Storia del jazz voluminosa, ma buona, la guida agli Standard del jazz un po’ ammuffita, il libro sul Delta blues ottimo. Nell’ultimo libro Gioia torna speculativo, parla (anche) di jazz, ma abbandona l’etichetta e intitola il lavoro Musica, una storia sovversiva (Shake Underground, 2023).
In breve l'assunto iniziale è che: «A qualsiasi stadio della storia umana, la musica è stata il catalizzatore del cambiamento». Un paio di pagine dopo il ragionamento si chiude così: «L'innovazione in musica procede dal basso verso l'alto e da fuori a dentro, non viceversa, chi detiene il potere e l'autorità di solito
si oppone alle innovazioni musicali, ma nel tempo, per cooptazione o trasformazione, le innovazioni diventano mainstream, e così il ciclo ricomincia».
Se la musica deve essere sovversiva, antiaccademica, generare repulsione dal potere e muoversi nell’underground, allora Jazz Is Dead compie un lavoro meritorio che vale la pena di seguire. Solo la curiosità ci salva dall'essere establishment di noi stessi. I tre giorni di programma main affastellano concerti dal pomeriggio alla notte fonda e chiaramente non tutto è per tutti. Per questo, entrati nel recinto dello spazio Bunker, si vedono pubblici così diversi: ci sono le famiglie con i bambini che si godono il festival delle prime ore pomeridiane, ci sono varie tipologie di hipsteroni e tanta fauna che si ha l’impressione di aver visto in posti diversi fare cose diverse.
Lo so che i puristi stanno gridando all’orrore armocromico radical chic. Pazienza: il mondo sociale è esploso e dobbiamo attraversare mille frammenti.
Letto il programma, decido di andare a curiosare la domenica pomeriggio, dove da scaletta ci sono un paio di cose succulente per il mio palato vetero, ma per fortuna curioso. Guardo la fauna di varie età che inizia a crescere e mi chiedo: c’è del male in questo? Mi viene in mente un talk recente, dove si parla di jazz e Marco Basso, critico di musica della Stampa, guarda il pubblico riunito, poi include se stesso nel panorama e se ne esce crepuscolare: «sembriamo il cimitero degli elefanti!». Ampi sorrisi-dentiera tra il pubblico e teste che si muovono lente con cenni di assenso.
Abbiamo detto che Jazz Is Dead è un free festival. Questo comporta che si entra e si esce quando si vuole e, su programmi così lunghi, ovviamente i vecchietti come il sottoscritto torneranno a casa ben prima che i ninja Boris possano terrorizzare loro i sonni notturni brandendo chitarre fiammeggianti. (Disclaimer: non so che genere facciano i Boris. Qualche sodale mi ha cortesemente avvertito di andare a casa che fanno metal o forse noise e altro ancora). Sarei andato a casa comunque, svanito l'effetto della pastiglietta antireflusso, avendo ormai mal di schiena e una certa stanchezza da giornata intensa. Lascerei comunque il campo ai più giovani e resistenti al microclima da jungla vietnamita del Bunker. D'altronde, l'underground musicale da qualche decennio almeno è ammasso di corpi sudati & appiccicati in movimento.
Cosa ho visto allora? Tre ottimi concerti pomeridiani. Partiamo con il primo. L'orchestra Pietra Tonale è un organico variabile, una sorta di mostro tentacolare in grado di riunire 3 musicisti come 20 (numero a caso) e inglobare nel suo procedere improvvisativo generi (e media) diversi. Quella che mettono in scena le pietre tonali è una conduction postmoderna, dove i generi vorticano e si intersecano tra loro, macinando anche proiezioni multimediali e inserti di elettronica. Il jazz è un ingrediente - oserei dire fondamentale per l'impasto - ma non è certamente l’unico.
Una parola anche sulla location, uno stupendo tendone da circo che desacralizza la musica e apre inedite possibilità espressive. D’altro canto, il circo da sempre ha a che fare con la musica e molti artisti sperimentali si sono rifatti alla sua poetica triste e decadente. Butto lì un The Clown di Charles Mingus, tanto per.
Torniamo al festival. Entra in pista (giustamente siamo al circo) il trio esplosivo costituito da Gabriele Mitelli/John Sanders/Mark Edwards. Qui l’ispirazione free è evidente e la colata lavica rovesciata dagli strumentisti è poderosa. Danzano tra loro e si prendono rischi come funamboli senza rete (siamo ancora al circo!!!). Sprazzi di grande musica. All'uscita mi complimento con la direzione artistica di un long distance runner come Alessandro Gambo che parla con tutti, si muove ovunque nell'area festival, e trova il tempo di presentare i concerti in orario, e con Giorgia Mortara, che, con aplomb, ricopre il ruolo di presidente e ufficio stampa di una macchina in costante crescita.
Il pomeriggio volge al termine e il programma prevede Moin e Boris per il gran finale, dove per fare il pubblico serve il fisico. È ora che gli attempati boomers si ritirino in buon ordine, e a salutarli ci pensa l’ultima sferzata prima del grand guignol notturno: dentro un Bunker già imballato sale sul palco un trio
eterogeneo, guidato dal chitarrista e banjoista newyorkese Brandon Seabrook. Brandon urla fin dal backstage e la sua energia è incontenibile. Più calmi sembrano, con un diddley bow autocostruito, che, con una sola corda a disposizione, produce suoni che sembrano quelli di una discoteca piazzata nella foresta, e la batteria di Gerald Cleaver che vorrebbe uscire dai ranghi, ma deve fare di necessità virtù. Intanto è iniziato il concerto e cellule sonore geneticamente modificate investono il pubblico. Ascoltando Seabrook si trovano forse echi di Fred Frith o Joe Morris, ma il risultato complessivo è diversissimo.
Visti i nomi della ritmica sul palco, ci si potrebbe aspettare un free canonico, e invece - a parte Seabrook che continua a macinare suoni obliqui - il tappeto ritmico è un solido muro in faccia. Le sportellate continuano brano dopo brano e potendo si incrementano anche, quando Seabrook passa al banjo. Qui al mix di avant-jazz, punk, rock, rumorismo, loop ritmici ossessivi si aggiunge una sorta di country in astinenza. I tre non smettono mai di far circolare energia tra loro e verso il pubblico: quando arriva il silenzio è finito il concerto.
FOTO DI ROBERTO REMONDINO