live report
Vinicio Capossela Bari / Teatro Petruzzelli
Concerto del 23/10/2023
#Vinicio Capossela#Italiana#Canzone d`autore Songwriting #folk Folk Pop
Tredici canzoni urgenti, disco premiato con la Targa Tenco nella categoria “Miglior album in assoluto” (e con questa sono cinque). Al suo seguito, i fedelissimi Andrea Lamacchia al contrabbasso, Piero Perelli alla batteria, Daniela Savoldi al violoncello, “Mike” Michele Vignali al sax baritono, Alessandro “Asso” Stefana alle chitarre, Raffaele Tiseo al violino.
L’atmosfera sonda subito la magia e il mistero, solo il palco e un divano rosso, preludio all’invasato electro-klezmer (e il suo intermezzo rocksteady) di Sul divano occidentale (che incantena a quel “sogno”, occidentale appunto, di cui siamo “prigionieri”). Già a spianar la via a imbeccate culturali, corto-ciruiti economico-sociali e relazioni in avarìa (con Capossela in elmetto e occhiali da sole).
Ed infatti, di lì a poco (fra buonismo, sessismo, guerre e nichilismo), è un traboccare di brechtiane citazioni: non solo in quel blues mascherato de La parte del torto, ma anche nei versi in cantilena de La crociata dei bambini (intriso pure del Vonnegut di Mattatoio N. 5, che ne fa di quel titolo uno alternativo).
Tuttavia, se “nello specchio delle pozzanghera si nasconde la melma”, cioè il villano gesto dei conflitti armati, è proprio il salto in quella pozza (del fanciullo in noi, dell’infante sbarazzino) a figurarsi baluardo ultimo di libertà, immaginazione e sana ingenuità. “La grammatica della fantasia inizia nella pozzanghera”, indubbiamente issato al pensiero rodariano, e poi a legarsi anche, nell’intreccio narrativo, ai Sigur Ròs di Hoppìpolla (alla lettera, i “pesta-pozzanghere”).
Tutto questo è Cha cha chaf della pozzanghera, a serrare le fila (coi fianchi al passo mambo & jive) di un coriaceo trittico sull’”educazione”: “morbosità della cronaca” e relazione come “campo dell’insicurezza”, sobillano quella “cattiva” (ne prende il titolo il brano in cui, con Margherita Vicario e un ritornello baustelliano, il Nostro dolorosamente omaggia il tragico destino di Anna Costanzo, ex truccatrice del Petruzzelli).
Dalla cattiva educazione si passa alla “cattiva rieducazione” (il sistema delle carceri, raccontato in quel Minorità con cui l’artista urla in faccia un refrain come fosse Tricarico).
Tirati spesso in ballo sono il tema della guerra e quel “senso” dell’elmetto (ne è prova il “postulato”, scandito sottovoce, “La prima resistenza è la vigilanza di noi stessi”): ne La staffetta in bicicletta s’annida Fenoglio, mentre Gloria all’Archibugio (“pezzo ricamato su un giro di follia”, filastrocca folk e assieme fanfara da balera) solletica una dedizione per Ariosto e una manciata di polverosi aneddoti (qui alle prese con l’Orlando Furioso e le prime armi da fuoco, anno 1522).
La scenografia, suggestiva, è una luna di malia (sommo satellite, dedicato ad Ariosto, in cui è ”collocato tutto il buon senso"), splendente ed attraente, a foraggiare il mistero e il magico incanto, lì sospesa sulle teste, cui si allinea assai straziante il Mild Und Leise da Tristano e Isotta, in quel suo lento deflagrare fra un po’ di versi inappuntabili (“Se il senno è sulla Luna / Qualcuno lo ha raccolto e lo raduna / Se la ragione è qui che si conserva vuol dir che sulla Terra non è rimasta che follia”).
E quale, se non l’amore (“conteso” nella dicotomia che intriga Dante e Ariosto, mentre suona seducente la rumba di Che coss'è l’amor), come urgenza più impellente e supremo ”bene rifugio”?
Poi anche spazio per il vecchio repertorio: una Marajà tirata a lucido, e una Zampanò, piazzata al primo encore, nella versione “balcanica” di Liveinvolvo (deliberatamente ispirata a Nino Rota e con Giovannangelo De Gennaro chiamato in causa).
Ancora: la commovente ballata Parla piano (“Le bugie non invecchiano / Sulle tue labbra aiutano”) e il climax smooth di Camera a Sud.
E quando tutto sembra ormai al tramonto (il polimorfismo e gli eruditi musicanti, i caroselli parodistici, l’allegoria e il trasformismo, le carovane con Waits, Jannacci e Bregovic nel pieno valzer di culture), Capossela spiazza e riappare. Torna al palco e “dona” (il prodigarsi, l’omaggiare, altri temi anche quelli…) un secondo bis emozionante: Con i tasti che ci abbiamo “toglie la paura dell’errore”, nega l’inciampo nel percorso pentatonico dei soli tasti neri (“senza dominanti e perciò senza dominati”, di fatto una “scala democratica” consolante). Quelli e gli altri porta in scena, estratti e messi a nudo, così sghembi, lunghi e sdentati, eppure un gesto di sollievo e redenzione. Poi li "pianta" nel suo corpo, in ogni dove. È proprio “lui”: San Sebastiano trafitto dappertutto. È qui che l’atto si fa dolore, e il dolore si fa tragedia. Chapeau.
Setlist
1 Sul divano occidentale
2. All you can eat
3 La parte del torto
4 La staffetta in bicicletta
5 Il bene rifugio
6 Parla piano
7 La cattiva educazione
8 Minorità
9 Cha cha chaf della pozzanghera
10 La crociata dei bambini
11 Ariosto Governatore
12 Gloria all'archibugio
13 Il povero Cristo
14 I musicanti di Brema
15 Maraja
16 Che cossè l'amor
Encore
17 Camera a sud
18 Zampanò
19 Il tempo dei regali
20 L'uomo vivo (inno al Gioia)
Encore 2
21 Con i tasti che ci abbiamo
Fa tappa a Bari, Teatro Petruzzelli, il tour 2023 Con i tasti che ci abbiamo, con cui Vinicio Capossela sta esportando in lungo e in largo il suo L’atmosfera sonda subito la magia e il mistero, solo il palco e un divano rosso, preludio all’invasato electro-klezmer (e il suo intermezzo rocksteady) di Sul divano occidentale (che incantena a quel “sogno”, occidentale appunto, di cui siamo “prigionieri”). Già a spianar la via a imbeccate culturali, corto-ciruiti economico-sociali e relazioni in avarìa (con Capossela in elmetto e occhiali da sole).
Ed infatti, di lì a poco (fra buonismo, sessismo, guerre e nichilismo), è un traboccare di brechtiane citazioni: non solo in quel blues mascherato de La parte del torto, ma anche nei versi in cantilena de La crociata dei bambini (intriso pure del Vonnegut di Mattatoio N. 5, che ne fa di quel titolo uno alternativo).
Tuttavia, se “nello specchio delle pozzanghera si nasconde la melma”, cioè il villano gesto dei conflitti armati, è proprio il salto in quella pozza (del fanciullo in noi, dell’infante sbarazzino) a figurarsi baluardo ultimo di libertà, immaginazione e sana ingenuità. “La grammatica della fantasia inizia nella pozzanghera”, indubbiamente issato al pensiero rodariano, e poi a legarsi anche, nell’intreccio narrativo, ai Sigur Ròs di Hoppìpolla (alla lettera, i “pesta-pozzanghere”).
Tutto questo è Cha cha chaf della pozzanghera, a serrare le fila (coi fianchi al passo mambo & jive) di un coriaceo trittico sull’”educazione”: “morbosità della cronaca” e relazione come “campo dell’insicurezza”, sobillano quella “cattiva” (ne prende il titolo il brano in cui, con Margherita Vicario e un ritornello baustelliano, il Nostro dolorosamente omaggia il tragico destino di Anna Costanzo, ex truccatrice del Petruzzelli).
Dalla cattiva educazione si passa alla “cattiva rieducazione” (il sistema delle carceri, raccontato in quel Minorità con cui l’artista urla in faccia un refrain come fosse Tricarico).
Tirati spesso in ballo sono il tema della guerra e quel “senso” dell’elmetto (ne è prova il “postulato”, scandito sottovoce, “La prima resistenza è la vigilanza di noi stessi”): ne La staffetta in bicicletta s’annida Fenoglio, mentre Gloria all’Archibugio (“pezzo ricamato su un giro di follia”, filastrocca folk e assieme fanfara da balera) solletica una dedizione per Ariosto e una manciata di polverosi aneddoti (qui alle prese con l’Orlando Furioso e le prime armi da fuoco, anno 1522).
La scenografia, suggestiva, è una luna di malia (sommo satellite, dedicato ad Ariosto, in cui è ”collocato tutto il buon senso"), splendente ed attraente, a foraggiare il mistero e il magico incanto, lì sospesa sulle teste, cui si allinea assai straziante il Mild Und Leise da Tristano e Isotta, in quel suo lento deflagrare fra un po’ di versi inappuntabili (“Se il senno è sulla Luna / Qualcuno lo ha raccolto e lo raduna / Se la ragione è qui che si conserva vuol dir che sulla Terra non è rimasta che follia”).
E quale, se non l’amore (“conteso” nella dicotomia che intriga Dante e Ariosto, mentre suona seducente la rumba di Che coss'è l’amor), come urgenza più impellente e supremo ”bene rifugio”?
Poi anche spazio per il vecchio repertorio: una Marajà tirata a lucido, e una Zampanò, piazzata al primo encore, nella versione “balcanica” di Liveinvolvo (deliberatamente ispirata a Nino Rota e con Giovannangelo De Gennaro chiamato in causa).
Ancora: la commovente ballata Parla piano (“Le bugie non invecchiano / Sulle tue labbra aiutano”) e il climax smooth di Camera a Sud.
E quando tutto sembra ormai al tramonto (il polimorfismo e gli eruditi musicanti, i caroselli parodistici, l’allegoria e il trasformismo, le carovane con Waits, Jannacci e Bregovic nel pieno valzer di culture), Capossela spiazza e riappare. Torna al palco e “dona” (il prodigarsi, l’omaggiare, altri temi anche quelli…) un secondo bis emozionante: Con i tasti che ci abbiamo “toglie la paura dell’errore”, nega l’inciampo nel percorso pentatonico dei soli tasti neri (“senza dominanti e perciò senza dominati”, di fatto una “scala democratica” consolante). Quelli e gli altri porta in scena, estratti e messi a nudo, così sghembi, lunghi e sdentati, eppure un gesto di sollievo e redenzione. Poi li "pianta" nel suo corpo, in ogni dove. È proprio “lui”: San Sebastiano trafitto dappertutto. È qui che l’atto si fa dolore, e il dolore si fa tragedia. Chapeau.
Setlist
1 Sul divano occidentale
2. All you can eat
3 La parte del torto
4 La staffetta in bicicletta
5 Il bene rifugio
6 Parla piano
7 La cattiva educazione
8 Minorità
9 Cha cha chaf della pozzanghera
10 La crociata dei bambini
11 Ariosto Governatore
12 Gloria all'archibugio
13 Il povero Cristo
14 I musicanti di Brema
15 Maraja
16 Che cossè l'amor
Encore
17 Camera a sud
18 Zampanò
19 Il tempo dei regali
20 L'uomo vivo (inno al Gioia)
Encore 2
21 Con i tasti che ci abbiamo