live report
Seeyousound International Music Film Festival 2024 Torino / Cinema Massimo MNC
Concerto del 23/02/2024
#Seeyousound International Music Film Festival 2024#Derive#Suoni Cinema
soggiorno di casa». Questa citazione (a memoria) esce da una scena del documentario Portrait of an Electronic Music Pioneer (di Robert Fantinatto, 87′, Canada, 2022) e svela uno dei lati della filosofia musicale di Morton Subotnick, compositore che per lungo tempo è rimasto appannaggio di una ristretta cerchia di fan, pur avendo fatto parte di un gruppo informale di lavoro negli esordi a San Francisco che annoverava tra le sue fila Pauline Oliveros e Ramon Sender.
Spesso considerato il padre della musica elettronica, il suo background classico gli ha aperto le porte dell’università, ma l’establishment culturale non lo ha riconosciuto rapidamente come ha fatto con altri innovatori come Philip Glass, Steve Reich o La Monte Young (con il quale ha anche collaborato). Certo, può essere questione di linguaggio, ma più probabilmente il fatto che si sia fatto conoscere nel comporre non per l’orchestra, ma ispirato da un “Buchla”, ovvero dal sintetizzatore modulare dei primordi. Legni, ottoni, pelli, corde della musica classica diventano cavi, pulsanti e bottoni per l’elettronica. Decine di violini vanno di colpo a spasso e arrivano amplificatori e diffusori acustici. Una rivoluzione epocale. Fin da subito le sue opere si accompagnano alle immagini, all’azione scenica sul palco, diventano poemi mediatici con la musica in posizione paritaria rispetto alle altre arti e calata in una modalità funzionale e descrittiva.
E dire che il pedigree del giovane Morton era quello da professore d’orchestra, virtuoso di clarinetto. Come da questo prologo di carriera la storia sterzi verso l’elettronica lo spiega sorridendo lo stesso Subotnick, oggi uno splendido novantenne ancora in attività (e in cerca di ingaggio!). Di più non è possibile raccontare per non rovinare la festa ai futuri spettatori, basti aggiungere che il documentario deliziosamente procede avanti e indietro, dagli anni Sessanta alla contemporaneità, mostrando i primi esperimenti con i sintetizzatori costruiti da Don Buchla e l’elettronica odierna, dove Subotnick incontra un pubblico giovane del quale è agevolmente bisnonno.
Un pubblico abbiamo scritto, ma dovremmo parlare soprattutto degli artisti, perché Subotnick ha ispirato musicisti e compositori in tutto il mondo. Siamo partiti dalla fine, dal film che il festival SeeYouSound presenta in anteprima al pubblico italiano, ma per gli spettatori in sala la visione di sabato 24 febbraio è stata preceduta da un live show che si sposa perfettamente con la filosofia del compositore americano e della sua “scuola”.
Sotto lo schermo gigante della sala grande del Cinema Massimo di Torino è stato allestito un laboratorio di apparecchiature che avrebbero fatto la gioia del buon Don Buchla in persona; intorno al tavolo di lavoro, i cerimonieri sono i SOLAR PULSERS, ovvero Giorgio Li Calzi, Paolo Dellapiana, Sara Berts, mentre, immerso nel buio della sala, opera Giampo Coppa con i visual psichedelici del Liquid Live Show.
I tre musicisti hanno background diversi ma una sensibilità comune e i loro apporti singoli entrano fluidamente in un processo unitario che si integra con lo spettacolo luminoso. Il termine più corretto per definire il risultato è definirlo come una “fantasmagoria” di suoni e colori. Le macchie di colore liquide che si muovono sullo schermo dialogano con rumori, suoni naturali e umani, ritmi artificiali, onde che si infrangono, gocce che piovono da un altro cosmico. La musica, dove si sente la miglior elettronica, la lezione minimalista, qualche eco lontana di jazz, è l’avanguardia dell’umano in un mondo nuovo, mentre sullo schermo strane cellule di colore prendono vita, si aggregano e decompongono.
Per sinestesia penso a Zygmunt Bauman e alla sua società liquida tradotta in musica e in immagini, mentre persone più serie forse vi direbbero che questo genere di spettacoli e tutto il lavoro di Subotnick hanno qualcosa a che vedere con i Trips festival californiani che precedettero l’estate dell’amore nel ‘67 e dove la psichedelia incontrava la luce, che incontrava i colori, che incontravano poderose masse hippie-rock. Nello stesso luogo e tempo, più prosaicamente, alcuni nerd sinistrorsi-anarcoidi si sballavano malamente e inventavano internet al suono del Bianconiglio dei Jefferson Airplane. Anche il disco Silver Apples of theMoon (1967), capolavoro di Subotnick, emerge da quell’era geologica-psichedelica pre-sessantottina.
Mentre la mente divaga, nel frattempo sul palco Li Calzi ha imboccato la tromba e immesso nel magma pochi suoni modificati dalle macchine, sintetici, filtrati, eppure lirici. Siamo ampiamente nel nuovo millennio e tocca farci i conti. Lontani profumi di Miles Davis nell’etere, sullo schermo colori liquidi, gelatine e solventi miscelati ricreano un instabile blue vivente.
Un plauso a SeeYouSound che quest’anno celebra il traguardo della decima edizione con altrettanti giorni di festa per gli occhi e le orecchie. In una città che vive una profonda relazione d’amore con il cinema come Torino, SeeYouSound ha saputo ricavarsi un proprio spazio: si occupa di musica e cinepresa in tutte le sue forme e ogni anno offre primizie deliziose, in barba ai generi e alle mode.
Un paio di giorni dopo troviamo nuovamente Giorgio Li Calzi, ora nelle vesti di esperto a introdurre un altro documentario, che questa volta guarda al jazz e mira al bersaglio grosso: Max Roach. The Drum Also Waltzes (Sam Pollard, Ben Shapiro, 2023). Roach è stato un innovatore impressionante, al centro del ciclone bebop con Charlie Parker e e Dizzy Gillespie negli anni Quaranta, nei Cinquanta co-leader con Clifford Brown di una delle migliori incarnazioni dell’hardbop, nei Sessanta attivista dei diritti civili con Abbey Lincoln, nei Settanta sperimentatore con gli avanguardisti e ideatore del gruppo di sole percussioni M’Boom, negli Ottanta e Novanta a suo agio con operazioni teatrali, multimediali, con gli archi classici, con il rap.
Qualcuno nel documentario lo paragona - per il tasso di creatività mostrata nei decenni - a Miles Davis, pur senza mai averne lontanamente sfiorato il livello di fama. Roach ha sfidato l’America razzista e se stesso più volte sempre alla ricerca dell’ottimo e del bello. Nel documentario colpisce quando afferma di iniziare a padroneggiare la batteria (e lo dice alla modica età di settant’anni!). Ha sofferto (e spesso fatto soffrire), ha contribuito a cambiare l’America e ha prodotto musica per sola batteria o per batteria e percussioni di infinita black beauty. Il suo tocco sulle pelli ha un timbro sottile, un’espressività unica. Ha suonato il miglior jazz del “canone” e poi ha saputo a più riprese forzarne gli schemi, portarsi “fuori”. È grande come Miles, Mingus, Monk e come pochi altri e deve stare lassù in cima, dove questo documentario lo colloca.