NAPOLI
15 marzo 2004 Sulla scia dei consensi crescenti, che i loro lavori discografici stanno ottenendo anche in una piazza difficile come quella italica, tornano a Napoli i Califone e gli oRSo, due tra le più interessanti indie band americane del momento.
Il sodalizio tra le due formazioni non è casuale visto che vari membri dei Califone hanno collaborato a lavori degli oRSo ed entrambre le band affondano le radici in due tra le più belle realtà indie del decennio passato (Rex e Red Red Meat).
Come al solito inizio in tarda serata, ideale per un pubblico composto prevalentemente da studenti e fricchettoni, ma non per il sottoscritto, "too old for Rock 'n' roll too young to die", come cantavano i Jethro Tull!
Inizio in sordina con gli oRSo, praticamente un duo chitarra acustica/banjo e organo. Propongono un folk rock disteso e rilassato, con scale di chitarra oniriche e ripetute, quasi una versione più solare e senza fingerpicking del compianto John Fahey. Piacevoli per i 40 minuti di set, ma un po’ pesanti, soprattutto vista l'ora.
Poi arriva il momento per i Califone, freschi della recente pubblicazione di "Heron King Blues", un album piacevolmente retrò e fuori dal tempo, nel senso che recupera in maniera intelligente e senza snobismi suoni tradizionali, senza in fondo distanziarsi molto dai precedenti lavori.
L'ambiente si riscalda: i Califone armati di percussioni, violino chitarre elettriche/acustiche (spiccano una bellissima Telecaster e una Gibson rossa fiammante, simile alla semi-hollow Gibson ES-355 di Chuck Berry), percussioni e aggeggi elettronici vari, propongono un set perfettamente in bilico tra brani acustici e improvvisazioni elettriche, perfetta miscela tra la furia di Neil Young, il free di Sun Ra e le elucubrazioni avant-hillybilly di Henri Flynt.
Notevole la resa dal vivo della voce di Tim Rutili calda e vellutata, ma con un che di stonato e bizzarro che (misteri della memoria) mi ha ricordato un po’ Dylan. Il repertorio del live ha pescato molto dagli ultimi due album con poche concessioni ai suoni meno digeribili dei primi EP e più spazio al formato canzone. Menzione particolare per la classicissima "Million Dollar funeral" (sembra quasi fuoriscita dalla colonna sonora del lynchiano "Una storia vera") e per l'elettrica, quasi funkeggiante, "2 sisters drunk on each other".
Peccato per l' acustica di Galleria Toledo che non è il massimo; è troppo corta e il suono (soprattutto nei brani più elettrici) non si diffonde al meglio.
Comunque è stata una conferma importante per una band che, malgrado la particolare alchimia di suoni presentato in studio, non perde il giusto feeling live come succede a molte nuove formazioni.