live report
Thom Chacon Firenze/ Teatro del Sale
Concerto del 11/01/2018
Thom Chacon arriva da Durango, preceduto da una manciata di dischi e da un sempre maggiore interesse nei confronti della sua musica, che hanno portato ad impegnativi accostamenti con nomi altisonanti. Dopo alcune autoproduzioni, è l'album omonimo del 2012 a fare da apripista e ad accendere i primi riflettori sul giovane autore del Colorado, nei credits i nomi di Tony Garnier e George Recile, dalla band di Dylan, a dare ulteriore lustro al prodotto. Per la probabile definitiva consacrazione eccolo ora a noi con il nuovissimo Blood In The USA, una copertina sul Buscadero di questo mese e una manciata di nuove storie da raccontare in presa diretta.
La calde assi del Teatro benedicono una voce roca e strascicata al punto giusto, il suono della chitarra acustica accompagna ballate dolenti e dolorose, storie di povertà, fame, sofferenze, guerre, ma anche di coraggio, passione, fierezza e riscatto. "There's a home in the heart of the USA", canta la disperazione nella title track del disco che apre anche la serata. "And we're dying right here, in the promised land", la tanto agognata terra promessa sta' uccidendo i sogni che milioni di immigrati hanno lanciato oltre il confine, come gli antenati di Thom arrivati dal Messico in cerca di fortuna e celebrati adesso in I Am An Immigrant "I am an immigrant from Mexico/Got a wife and kids back in El Charro". Inevitabili e immediati gli accostamenti con Dylan e Townes Van Zandt per la scrittura ed il taglio stilistico dei brani, la matrice folk, country, blues è conclamata, la voce invece lo avvicina molto a John Mellencamp, Steve Earle, Michael McDermott e John Prine. Paragoni che per il momento non preoccupano il nostro eroe, piccolo di statura ma solido di spalle, perfettamente a proprio agio con una chitarra a tracolla e davanti un pubblico in attento ascolto. Lo sostiene la figura imponente e rassicurante di Paolo Ercoli, assoluto padrone di dobro e lap steel, incisivo, brillante e sapiente tessitore sonoro della tela su cui Thom adagia la sua voce e i suoi quadri musicali in bianco e nero.
Juarez, Mexico inquadra ancora la frontiera con un cantato figlio diretto di John Prine, American Dream, Innocent Man e Chasing The Pain seguono il filo di un racconto che spesso non lascia spazio alla speranza e all'allegria. Un filo di luce arriva da Easy Heart "Holdin' tight, pullin' on the oars/I'm alive, my spirit needs no more" mi tengo saldo, tiro i remi/sono vivo, al mio spirito non serve altro. Ci pensano poi le cover, Even The Losers e Two Hearts, a rompere ulteriormente la tensione, il folk incontra un corroborante e rigenerante rock'n'roll, Bruce e Tom indicano la strada per una rinascita, senza ovviamente cancellare le brutture di un passato americano che tanto somiglia al presente. In quest'America cupa e depressa, oltre allo Springsteen di Nebraska, aleggia ovviamente anche l'imponente ombra di Johnny Cash. The Man In Black si staglia inequivocabilmente in Work At Hand, dove Thom canta "I jumped that train/cross the barren plains" per poi tornare al tema del sangue, della polvere, del sudore e della terra "Blood in the dirt, sweat on the land/roll up your sleeves there's work at hand". Tra i brani dell'ultimo disco meritano una citazione anche Empty Pockets e Big As The Moon, un'ora circa per un concerto breve ma tremendamente intenso, acuminato come un coltello, profondo come le ferite, prezioso come il racconto e la memoria, unico come una serata al Teatro del Sale.