David Crosby

live report

David Crosby Como / Teatro Sociale

10/12/2014 di Laura Bianchi

Concerto del 10/12/2014

#David Crosby#Rock Internazionale#Songwriting



Il Teatro Sociale di Como è un transatlantico, stasera. Popolato da naviganti con l’acqua alla gola, superstiti di naufragi esistenziali o in cerca di un approdo sicuro. Gli stucchi, i velluti e gli ori non traggano in inganno: un Teatro, in queste sere, non si mette l’abito elegante per fare sfoggio di potere, ma accoglie, protegge, cura e consola.

Il palco del Teatro è spoglio: sei luci sei, un tavolo, una bottiglietta d’acqua. Nemmeno un bicchiere, nemmeno una sedia. Ma c’è un microfono, e ci sono due chitarre. E c’è un uomo di settantatré anni, giacca sformata, pantaloni stazzonati, come la cartapecora della pelle del volto, che non nasconde le infinite battaglie e i sogni di un’esistenza vissuta completamente.

David Crosby approda al Teatro come un naufrago, anche lui, “naked”, nudo, come più volte ripete. Negli occhi, l’infinita dolcissima stanchezza di un saggio folle, che ha consumato le esperienze come le droghe, che ha amato la vita come una droga, e che continua a distribuire i suoi due doni a piene mani, per ringraziarci di averlo accolto, in questo transatlantico, questa sera, per riprendere un po’ di fiato, prima di tuffarsi di nuovo nel mare dell’essere.

I suoi due doni: la musica, e le parole. Le parole: “I love words”, sussurra. Le parole precise di un artista che prima di tutto è un uomo, che prima di essere un intellettuale è fratello, complice, sodale di tutti noi. Gli sguardi che ci lancia, dalle fessure dei suoi occhi, i gesti misurati con cui comunica la propria gioia di esserci (come la mano portata sotto la giacca, a simulare un cuore che sta battendo, e la felicità che questo avvenga proprio ora, proprio qui), sono i segni di una nobiltà che è la sua, ma che è anche la nostra.

E la musica: le mani si muovono sulla chitarra, come sul corpo di una donna (e che lui ami la chitarra si capisce, al punto che la bacia, addirittura, fisicamente), accordandola o scordandola, anche dimenticandola, quando l’urgenza del comunicare prevale sull’esigenza del virtuosismo, proprio come un amante che, nel gesto di amore, non vuole ricordarsi di essere bravo, ma desidera solo essere innamorato. E la voce si incrina, si impenna, si amplifica, si riduce, si fa immensa e minima, un sussurro, una preghiera, un richiamo, un grido.

Come tutti i naufraghi del mito, da Ulisse in poi, racconta storie; le storie che lui ha vissuto in prima persona, e noi di riflesso, in quegli anni, in cui l’eco della West Coast giungeva chiara e forte anche nella periferia dell’Impero, amplificata dall’aura di leggenda che quei racconti portavano con sé: racconti di eccessi, di vite borderline, di proteste, ma anche di speranze, di sogni psichedelici, di sogni civili, di sogni e basta. A volte, gli basta cantare da solo, a cappella, un pezzo nemmeno concluso, scritto decenni fa,“perché mi fa stare bene”, per fare stare bene tutti noi, immersi, con lui, nell’indignazione per un mondo dominato dalle guerre fatte per denaro. Altre volte, come sull’iconica Guinnevere, non gli bastano una chitarra e una voce, e allora, pur da solo, ricrea la magia di un’armonia amplificata, e le orecchie sentono quello che gli occhi non vedono: tre chitarre, o forse quattro, di sicuro quattro voci, a cantare la storia delle storie, l’attesa delle attese, l’attesa del giorno in cui saremo, finalmente, liberi di salpare.

Intanto, i suoi due doni scendono nel silenzio di un teatro – transatlantico immerso in un universo parallelo, e ciascuno li accoglie come può, come sa, e li rende cibo per l’anima, forza per la vita, sostanza per proseguire la navigazione. La Bellezza donata scivola nei cuori, e lui, e noi, siamo stupefatti di tanta generosità, che per stasera ci scambiamo. Perché alla Bellezza non ci si abitua mai.


Fotografie di: Giuseppe Verrini