Alvin Lucier

live report

Alvin Lucier Hangar Bicocca - Milano

09/10/2014 di Paolo Ronchetti

Concerto del 09/10/2014

#Alvin Lucier#Derive#Suoni

Sin alla sua inaugurazione considero Hangar Bicocca uno degli spazi culturali più importanti e internazionali in Italia. È lo spazio che faccio visitare agli amici che vengono da fuori Milano, ed è lo spazio dove se posso mi rifugio quando devo fermarmi a pensare. L’antro confortevole della balena, il laboratorio dell’artista e dello scienziato, una immensa navicella spaziale, un oscuro e immenso luogo di luci e suoni riverberati. 

  Questa sera la presenza del compositore statunitense Alvin Lucier, in occasione della mostra Papagaio di Joao Maria Gusmao e Pedro Paiva, aumentava di molto il tasso di curiosa aspettativa.
 
  Da sempre interessato alla relazione tra le scienze, soprattutto la fisica, e il suono, l’ultraottantenne sperimentatore ci ha presentato dapprima i suoi due storici lavori Music For Solo Performer (‘65) e I Am Sitting In A Room (‘69) e infine un lavoro relativamente più recente Nothing Is Real del 1990.
  Nonostante il dichiarato ed esplicito approccio scientifico alla propria arte, la serata si è trasformata sin dall’inizio in una performance in cui la scienza, evocando la fantascienza, diventava magia unica. Una magia che era potenza evocativa. Potenza evocativa della mente, dello (nello) spazio e del suono in esso (da esso) contenuto e modificato. Arte!
 
  Sul palco, ma soprattutto intorno al pubblico, decine di percussioni, collegate a piccole casse acustiche o per contatto diretto o attraverso le parti finali di bacchette di batteria. Nel primo brano in programma, Music For Solo Performer, questi strumenti venivano suonati da Lucier attraverso la trasformazione/amplificazione delle Onde Alfa prodotte/evocate dal suo cervello che producendo un “sordo tuono” muovevano la membrana dei piccoli amplificatori facendo così “suonare” le percussioni. Difficile da spiegare se non ripetendo schede tecniche che vi consiglio di visitare su internet, ma il risultato era quello di un vecchio scienziato immobile, seduto su di una sedia sul palco, con in testa una serie di elettrodi trattenuti da una fascia rossa che con la forza del pensiero suonava le percussioni disseminate intorno al pubblico. Chiaramente non era la forza del pensiero, ma anni di allenamento, ad evocare le Onde Alfa prodotte dal cervello nella maniera più forte e armonica possibile…(e vi rendete conto di quanta poca possa essere la differenza). Scrisse a proposito lo stesso Lucierquello che mi colpiva era l’immagine di un essere umano immobile, se non paralizzato, che cambiando semplicemente lo stato di attenzione visiva è in grado di attivare la configurazione di apparecchiature comunicative con quello che sembra essere un potere proveniente da un regno spirituale” 
 Tra scienza e fantascienza Lucier sembrava provenire dallo Scanners cronengberghianio con la sua figura da scienziato anni ’70, in un modernariato che sa di futuro. E quando, a metà performance, Lucier incomincia a tossire non puoi pensare, per un infinito attimo, che gli stia per esplodere il cervello come nel film di Cronenberg. Ed invece i suoni evocati diventano ancora più suoni reali e corpo. La mente sola e il corpo immobile su nuovi suoni e strumenti. E il tutto assume la straniante (in)corporeità onirica del sogno. Di un sogno fatto di suoni.

  Minimalismo assoluto è ciò che ci attende invece nel secondo brano in programma. Lucier legge al microfono un testo che inizia appunto con la frase I Am Sitting In A Room… ed enuncia in cosa consiste l’esperimento. La frase registrata viene quindi ri-tramessa dalle casse e ri-registrata con almeno tre microfoni (sono quelli che ho visto io) posti a poco più di un metro dai diffusori. Questo per sedici volte. Minimalismo assoluto dicevo perché, a differenza di Rilley, Glass o Reich, nella frase non viene spostato/modificato alcun accento o frammento melodico, ma si sposta esclusivamente la dimensione dello spazio tra la fonte sonora e la sua registrazione sino a modificare in maniera assoluta ciò che si ascolta. Come se alle parole venisse aggiunta una quantità sempre maggiore di “spazio” anche qui in una dimensione tra il magico e il fantascientifico anni ‘60/’70. In assurde libere associazioni il suono mi sembra a volte vicino al mio incubo preadolescenziale del Major Tom perso nello spazio in Space Oddity. Ma, meglio, il linguaggio si allontana sempre più dalla sua intellegibilità per diventare suono siderale. Armonico sempre più distante e sempre più onirico. Sempre più simile ad un sogno di cui non ricordi i particolari ma esclusivamente le profonde sensazioni. Come dice Lucier, ricordando la notte del primo esperimento: “Con il susseguirsi delle registrazioni, le risonanze della stanza diventavano sempre più pronunciate; l’intellegibilità del discorso scomparve. Il discorso divenne musica. È stato magico”. 

  L’ultima composizione, scritta per la pianista Aki Takahashi, prende spunto da Strawberry Fields Forever dei Beatles e il titolo dalla frase chiave della canzone “Nothing is Real”. Le frasi musicali del brano vengono suonate da Lucier sul piano e registrate in digitale. Quindi, a random, le frasi vengono riascoltate tramite un piccolo altoparlante posto all’interno di una teiera. Aprendo e chiudendo il coperchio della teiera il suono si modifica e quando la stessa viene sollevata dal coperchio del pianoforte gli armonici e le risonanze scompaiono lasciandoci con un suono sottile quasi disperato (come quello dell’uomo/mosca de L’Esperimento Del Dottor K. di Neumann (’58)). Ma in realtà anche qui la teiera diventa magia: come una Lampada Di Aladino o come quella Flying Teapot di gonghiana memoria che ci accompagnava per viaggi interstellari e prodigiose imprese. Una teiera volante di suoni per la mente.
  Pubblico numeroso (in molti sono rimasti fuori), attento, stupito e meravigliato da una complessità concettuale che rimandava però sempre ad una magia onirica unica e affascinante.