live report
The White Buffalo Milano - Alcatraz
Concerto del 02/05/2022
#The White Buffalo#Rock Internazionale#Alternative Andrea Van Cleef
Il primo dei due artisti d’apertura è Andrea Van Cleef che si presenta solo davanti a un pubblico già consistente e senza particolari timori si esibisce in un set – nient’affatto semplice – voce, chitarra acustica e looper. Riesco – mea culpa – ad ascoltare solo le ultime due canzoni, che suppongo però rendano bene le atmosfere dello spettacolo, di chiara derivazione “new wave quella bella” …parliamo quindi di Depeche Mode, con Dave Gahan evidente modello vocale. Molto poco per dare un giudizio articolato, ma – pur non essendo il mio genere preferito – ho apprezzato la scioltezza professionale dell’esecuzione e la qualità della proposta.
Dopo una pausa, sempre troppo lunga, arriva il secondo opening act: il cantautore californiano Luke Andrews “L.A.” Edwards con la sua band: batteria, basso e due chitarre (incluso il titolare). Un viola bass lascia presagire inquietanti beatlesismi e i cori d'apertura sembrerebbero confermare, ma le armonie richiamano più un misto di west coast e new folk alla Mumford and Sons e Old Crow Medicine Show... In questo caso, però cappelli di paglia e salopette sono sostituiti da giubbotti alla moda e occhialoni brillantinati che avrebbero fatto invidia all’Elton John dei bei tempi andati. L’impressione non migliora spostando lo sguardo sulla band: il batterista espone spavaldo una fascia bianca in testa che avrebbe fatto arrossire anche i cuochi dei manga giapponesi, e il bassista con cappello, canottiera e gilet è un misto tra gli U2 degli anni '80 e Ligabue degli anni '90. Musicalmente è la California degli anni "70 a farla da padrona, fino alle soglie del plagio a Jackson Browne. Ma senza Lindley e senza l'abisso di profondità dell'originale. Occorrerebbe passare meno tempo davanti allo specchio e di più ad esercitarsi a scrivere canzoni. Nel frattempo, la saggezza popolare fa sì che la mascherina obbligatoria diventi quasi subito un ricordo vago, e il concerto può cominciare sul serio. Nello showreel della carta carbone dopo Jackson Browne è la volta di Bruce Springsteen in salsa The National (o Gaslight Anthem) e altri act di un’epoca recente ma fortunatamente già dimenticata. Comunque i testi non ci sono, e la musica è un esercizio di stile che stanca al terzo accordo, perfetto per lo spot di una compagnia telefonica, ma ampiamente insufficiente per chi mastica musica a colazione pranzo e cena. Né una (buona) cover di Townes Van Zant (If I needed you) può bastare a fare media con composizioni originali tutto sommato eccessivamente derivative e, in fin dei conti, dozzinali. Sul pezzo finale arriva effettivamente l'assolo di slide, ma David Lindley resta lontano. Insomma, i pollici in su o in giù dei vertici delle major che decidono chi vive e chi muore nell’arena discografica sono sempre più incomprensibili. Forse sarebbe meglio se i CEO si occupassero esclusivamente di show televisivi e lasciassero ad altri questo non facile compito.
Mentre sopportiamo una pausa ancora più lunga della prima, si impone una riflessione sul suono di questi concerti con i grossi palchi e i grossi impianti: è ancora quello ultrafinto che ricordavo, con bassi di gomma che non esistono in natura (vi prego, spegnete quei benedetti subwoofer!) e chitarre conseguentemente approssimative (tipo che tra una Telecaster e una 335 non fa nessuna differenza), per non parlare delle parole per lo più inintelligibili. Peccato.
Finalmente arrivano The White Buffalo, a cui bastano meno di dieci secondi della opener (del concerto e dell’ultimo disco On the widow’s walk) Problem solution per far capire a chiunque la differenza abissale di peso specifico e cancellare del tutto la prima parte della serata. Un semplicissimo trio con Matt Lynott alla batteria, posizionata in prima fila (scelta che approvo) e Christopher Hoffee al basso (con saltuarie parentesi al pianoforte), con uno suono e una presenza scenica enormi, e lui… il cantautore, cantante e chitarrista Jake Smith (titolare e deus ex machina del progetto) con quella voce, con quella profondità, con quella personalità… e solo una “povera” (si fa per dire: è una bella Taylor) chitarra acustica dalla quale, tuttavia, ogni tanto escono anche dei suoni elettrici e leggermente saturi che alle orecchie sicule del sottoscritto non possono non ricordare quel geniaccio matto di Marcello Cunsolo dei Flor De Mal (poi soltanto Flor), protagonista minore ma indimenticabile del rinascimento etneo dei primi anni ’90. Vitalità ed elettricità (non necessariamente sonora ma certamente emotiva) si tagliano col coltello e i bei sorrisi che i musicisti si scambiano sul palco dimostrano che il ricircolo energetico palco-sala funziona alla grande stasera, specie sulle canzoni più datate, come One lone night da Once upon a time in the west del 2012. Questo è rock!!! Questo è spirito punk!!! Anche con una sola chitarra acustica e un basso dal suono grosso ma mai distorto. Le canzoni sono sempre belle, ma eseguite live salgono a un livello superiore. Anche due. Merito del fuoco indomito che solo un beautiful loser del rock può esibire con credibilità, e di una voce che in concerto, spinta da una sezione ritmica magistrale, satura e sgrana, acquisendo sfumature che su disco non ci sono ma che arricchiscono esponenzialmente la potenza interpretativa, pur mantenendo un controllo e una precisione dei fondamentali (intonazione, timing) invidiabili.
Le melodie larghe, l’autorevolezza esecutiva e l’enorme presenza scenica rendono digeribili, anzi piacevoli, anche ballate pianistiche con reminescenze liverpooliane e saltellanti folk dal non esaltante sapore tex-mex (come la saltellante Oh darling, what have I done?, dall’EP Prepare for the black and blue del 2010, che cantano tutti).
Su disco il Bufalo Bianco sulla lunga (e anche alla media) distanza può stancare, ma dal vivo di sicuro non fa prigionieri. Ottimi esempi le canzoni più recenti come Sycamore e The drifter, che nella placida quiete dell’ultimo disco appaiono “buone” ma dal vivo prendono vita e spessore, non sfigurando con i “greatest hits” del passato.
Un concerto come questo è una dimostrazione da manuale della differenza tra un poser che gioca a fare la rockstar (ok, mi avete sgamato, mi riferisco a L.A. Edwards) e un artista vero, che ha qualcosa da dire e la DEVE dire, che ci sia qualcuno ad ascoltare o meno. La differenza tra chi nel climax si toglie gli occhiali da sole alla Jean Paul Gautier e chi invece sputa quel che gli resta dell'anima.
Into the sun (ancora da Prepare for the black and blue) è un altro highlight del concerto. Una menzione d’onore per il bassista Christopher Hoffee: in quel contesto sonoro se la chitarra acustica si lanciasse in assoli a note singole il risultato sarebbe decisamente scadente… ma ci pensa il basso! Più precisamente, il basso di Hoffee non fa assoli: canta, affrescando il fondale sonoro che allarga enormemente il campo visivo-sonoro in cui chitarra e voce di Smith si muovono.
Come join the murder (dalla colonna sonora della serie Sons of Anarchy, che certamente tanta parte ha avuto nel rendere popolare la musica del Nostro) è un vero tripudio: tutti a cantare (e a riprendere coi telefonini). Non puoi non credere con tutto il cuore a ogni singola parola, se cantata con quello sguardo spiritato dalla furia della disperazione e – al contempo – dalla rassegnazione del sopravvissuto. Si tratta di un’esperienza emotiva e comunicativa che trascende anche strumenti musicali e singole composizioni.
Il (gran) concerto si chiude con il bis in cui Smith canta Wish it was true (da Once upon a time in the west) in splendida solitudine, coccolato da un pubblico oggettivamente all’altezza.