live report
Iosonouncane IOSONOUNCANE - MirtoRock Festival 2015
Concerto del 01/08/2015
Ad accompagnare l'accumularsi del pubblico sotto il palco di Villa Loreto è il cantante e chitarrista palermitano Nazario Di Liberto, vincitore del contest musicale promosso da Mirtorock in collaborazione con la startup Musing Show. In occasione dell'uscita di All Waste Town, suo terzo lavoro discografico, il siciliano, accompagnato da una band affiatata e ben rodata, ci regala un benefico fluire post-rock, cascate noise e derive synth che nel loro complesso costituiscono la personalissima cifra stilistica della band. Gli acuti stellari di Di Liberto, per contrasto alternati all'onirico e delicato cantato di Sonja Burgì, vengono illuminati da una luna meravigliosamente immensa che contempla timida il dispiegarsi musicale della performance, in più occasioni vicina ai primissimi esperimenti Radiohead. Il bianco satellite si solleva poco a poco, sovrastando come nel più romantico dei dipinti un albero che si innalza a sinistra del palco. Adesso sembra quasi sporgersi, più curiosa di prima, per godere anch'essa della meravigliosa vista sui Nebrodi e per assorbire quante più note possibili. E di certo non avrà incontrato grosse difficoltà nel farsi raggiungere da quell'ondata di decibel che i Dick Hudson ci sbattono letteralmente in faccia. Il power trio messinese esplode sul palco, sparpagliando mine anti-uomo tra un pubblico che non vuole schivare i continui attacchi dei tre musicisti. Solo i tom tentano di sgattaiolare via sotto i colpi di bacchette-mitragliatrici pesanti come macigni. I musicisti, procedendo ora per progressioni lineari, riff e stacchi, ora per esplosioni eteree e distorte, attingono con personalità e rispetto alla complessità del prog-rock in una chiave di devastante delirio punk. Tre Ronin incazzati ed imbizzariti che si rivelano probabilmente la migliore sorpresa di questa prima parte del festival. Meno compatti ma ugualmente accattivanti, seguono i Moustache Prawn. Il trio pugliese dispensa una buona lezione di rock n' roll, declinato per quaranta minuti nelle sue infinite sfaccettature. Soli di chitarra cotonata hard-rock, ritmiche funky, innesti synth-pop e cavalcate surf colorano le abbondanti derive strumentali della band, che a conti fatti superano per classe ed originalità il cantato punk fin troppo orecchiabile.
Il fatto che la scomparsa degli strumenti dal palco rappresenti il definitivo addentrarsi nel cuore pulsante del festival, ai più conservatori e puritani, potrebbe far storcere il naso o addirittura far versare qualche lacrimuccia al sapore di sale e nostalgia. Appoggerei pure questo ed altri vecchi retaggi, se non fosse che sul palco sono già in proiezione i disegni sghembi e sgangherati di Napo. In un batter di ciglia gli Uochi Toki sono già sul palco. L'attesissimo duo fa sì che anche i più pigri abbandonino le panchine della villa, ovviamente dopo aver fatto rifornimento di birra, e che si catapultino sottocassa per farsi devastare sterno e cassa toracica dalle basse frequenze dell'elettronica deviata di Rico. Il limite valicabile non è semplicemente l'ultimo lavoro discografico di Matteo Palma e Riccardo Gamondi; è il concetto-guida, ordine morale e obiettivo ultimo, delle sperimentazioni dei due piemontesi. Strappato irrimediabilmente il tessuto spazio-musicale, il pubblico viene sinteticamente catapultato in un'affettatrice beat, subendo lo stesso trattamento che gli Uochi Toki riservano alla propria musica. La decostruzione del linguaggio letterario e musicale diventa audace riflessione sui limiti del linguaggio stesso; tensione perenne accentuata dalla giustapposizione, in soluzione di continuità, delle metamorfiche visioni rappate. Non c'è possibilità di redenzione, né conclusione né limite all'universo situazionista degli Uochi Toki. Questo perchè “il film finisce quando smetti di pensarlo”.
Sembra essere stato Enrico Ghezzi in persona ad aver incollato alla performance elettronica del duo appena sceso dal palco uno splendido canto a tenore sardo che, diffondendosi dalle casse, palesemente preannuncia l'evento nell'evento. Jacopo Incani, rigorosamente con sigaretta e birra, è già a smanettare sul suo armamentario personale mentre discute con Bruno Germano, fonico e co-produttore dell'opera-capolavoro firmata IOSONOUNCANE nonché suo prezioso braccio destro in occasione di ogni appuntamento dal vivo. È una curiosità quasi malata quella che trasforma l'attesa in una insofferente impazienza. Come si rende in sede live tutto quello che ha mandato in estasi pubblico e critica e che senza ombra di presunzione è già il miglior album italiano del 2015? Come puo' un uomo da solo muovere una macchina così imponente, pesante e densa come DIE? Forse nemmeno a concerto terminato è possibile rispondere adeguatamente a questi interrogativi. Quello che conta, però, è che IOSONOUNCANE ci riesce. E ci riesce alla grande. A testa bassa muove braccia-tentacoli ed è già miracolo. DIE prende le mosse da un'elettronica magmatica ed ipnotica, sabbie mobili da cui fuoriesce il pianto gutturale e sintetico di "Tanca". Un parto doloroso e necessario dà vita a schegge e campionamenti che si liberano a forza dagli ultimi densi residui di placenta, fino a fondersi tra loro, pronti a marciare su bassi oscuri come la notte di Mirto. Il cantato di Incani è disarmante, tanto è impeccabile. Voce roca, canto a tenore e falsetti viscerali banchettano in quel delirio armonioso d'opposti che è DIE, mentre il pubblico si divide tra sorpresa, abbandono e religiosa contemplazione (tutto il pubblico, ad esclusione del fomentato-urlante-da-ordine-restrittivo che dietro di me ha doppiato Incani fino a costringermi ad uno spostamento netto e radicale). Le tracce del disco si seguono in soluzione di continuità, a ribadire, come se non fosse già chiaro, che DIE è un unicum indivisibile, come l'alternarsi del dì e della notte, della luce e del buio. "Stormi" appartiene alla prima categoria e non fa che confermare le straordinarie capacità vocali di Incani. Il pubblico è ormai una massa indistinta, perduta tra i meandri di un'architettura musicale che si dispiega autorevole in tutta la sua complessità. Ci si dimentica, intanto, della luna. Ma basta alzare di poco lo sguardo per accorgersi che quel grosso pallone aerostatico si trova adesso esattamente al di sopra del palco, liberandosi proprio a metà di "Buio" dalle lenzuola di nubi che la coprivano, ed entrando di diritto a far parte di una scenografia naturale indimenticabile. Più si va avanti più DIE appare come una macchina gigantesca che si muove in totale autonomia. Incani sembra limitarsi ad assecondarne i movimenti, spianandone la strada, aprendo cancelli e spalancando portoni, o all'occorrenza dissestando sentieri per poi crearne di nuovi e sorprendenti. "Carne", "Paesaggio" ed infine "Mandria". DIE impazza imbizzarrita e si sobbalza da terra ai ritmi serrati del suo galoppo, mentre Incani scende in volata dalla sella e si nutre ai margini del palco degli ultimi echi del viaggio. Va via ed è quasi complicato riuscire ad applaudire. Per lo più ci si limita smarriti a richiamare sul palco l'uomo che fino a quel momento teneva le redini della bestia. Incani, nuovamente armato di birra e sigaretta, imbraccia per la prima volta la chitarra e ci augura la buona notte regalandoci una splendida versione acustica de “Il corpo del reato”.
MirtoRock si riconferma realtà preziosa ed ormai insostituibile. La prossima edizione è vicina, quindi...seguite la scimmia!