Lowlands

interviste

Lowlands Lande basse, musica alta

25/01/2015 di Vittorio Formenti

#Lowlands#Americana#Roots

“The long and winding road” cantavano i Beatles, “Boulevard of broken dreams” replicavano quasi quarant’anni dopo i Green Day; strade tormentate, tortuose, difficili ma anche dense di soddisfazioni. Pur su crinali completamente diversi questo percorso é stato vissuto anche dai Lowlands, band pavese al vertice del rock indipendente nazionale che nel 2014 si é guadagnata plausi di critica e pubblico per il loro “Love etc..”. Verso la fine dell’anno abbiamo avuto l’occasione di conversare coralmente con alcuni rappresentanti del gruppo: Ed Abbiati (leader / voce / autore / chitarra), Roby Diana (chitarra), Francesco Bonfiglio (tastiere) e Mattia Martini (batteria). Ne é sortita più una confessione che una cronaca, ma non essendo sotto vincolo di segretezza ci pregiamo di sottoporvi l’esito di più di due ore di conversazione; lo sforzo di sintesi é stato un’impresa sia nel senso di fatica che di appagamento. Confidiamo che per i lettori prevalga il secondo effetto, auspicando di dare un contributo all’apprezzamento dell’arte di questo splendido combo.
Mescalina: da molti “Love etc..” é stato riportato come un disco con derive folk. In effetti accenni in questo sono evidenti ma paiono più colorazioni che ingredienti base delle composizioni.

 

Ed: sono d’accordo. I temi del disco sono certamente pregnanti; le chitarre acustiche, i mandolini, le fisarmoniche e i fiati tolgono un po’ di  rumore di fondo per tenere in evidenza la canzone su argomenti principalmente inerenti la finalità di un’esperienza, sia essa la vita o una relazione.

Inoltre le composizioni vogliono essere trasversali su più generazioni dato che le esperienze che ricordavo sono circolari e riguardano padri, figli, nonni, nipoti, coppie e via dicendo. L’idea era di ritrovare un senso di unione, come quello che vivevo da piccolo quando andavo in paese con mia nonna e suonavano le bande del circondario; un’immagine questa che ho avuto in mente quando ho dato vita a questo lavoro.

Da qui il progetto iniziale di un disco acustico con una “marching band”; poi, con lo sviluppo e con il conseguente approfondimento delle idee, il carattere é diventato più “swing” alleggerendo le atmosfere con un gioco tra chiaro e scuro.

 

Mescalina: parlare di “marching band” e “swing” riporta agli anni ’20 o ’30 in cui i combo suonavano ai funerali, alle feste o nei bordelli. Tutte situazioni vissute con una certa leggerezza, con l’idea di aiutare la comunità ad andare oltre al momento. Il disco invece, soprattutto nei testi, pare concentrarsi su situazioni  circoscritte a due o anche a un solo protagonista. Che nesso ci si può trovare?

 

Ed: durante il progress del lavoro collaborando con Andres Villani (sax) gli arrangiamenti si sono collocati a metà tra il mio approccio “cupo” e il suo più aperto. Quello che mi ha convinto del suo intervento é il fatto di aver tolto il disco dal tempo, dalla contingenza; penso a “My Baby” come esempio di questo effetto. Qui sta la differenza principale con  “Beyond”, che propone sonorità molto più collocate nella nostra epoca. Calza molto il parere che mi ha dato l’amico di Nashville Rod Picott quando mi disse che il disco gli ricordava l’epoca degli anni ’70 e ancora non esistevano generi e sottogeneri.

 

Francesco: quello che dice Ed é molto vero. Parlare di Dixie, Swing, Ragtime e prima ancora di Blues é rievocare un universo di suoni che, una volta fusi insieme, collocano il risultato al di fuori del tempo. Alcuni pezzi sono delle ballate anche molto attuali come sonorità, altri suonano certamente più tradizionali ma questo non é stato frutto di un disegno; il pezzo partiva, si sviluppava e arrivava spontaneamente ad un certo punto. Effettivamente il disco non ha generi specifici, i colori che può avere sono solo la punta dell’iceberg ma il senso é ciò che sta sotto, frutto di una rielaborazione tutta nostra.

 

Ed: un altro elemento da sottolineare é il fatto che, tutto sommato per la prima volta nella nostra storia, alcuni pezzi sono proposti “col cuore in mano”; per un senso assimilabile al pudore le colorazioni tendono a distrarre l’ascoltatore, forse per non mostrarci troppo esposti. Ripenso a “My Baby”, che si ispira ad una frase che disse mia figlia; la base é talmente personale che é stata vestita in modo standard per mimetizzare l’espressione intima. Non so dire se questo elemento é stato voluto o inconscio, l’ho riconosciuto a posteriori ma indubbiamente c’é.

 

Mescalina: dicevi che “Beyond” era un punto di arrivo per poi partire per nuovi lidi. In realtà non ci vedo uno stacco così forte, almeno sui contenuti. Pensiamo alla title – track; i pedali di piano e la circolarità dei motivi paiono sostenere il paradigma “Hope, lust, death & love” del testo. Forse l’espressione sonora é più solare ma tutto sommatto sei sempre lì a masticare gli stessi oscuri problemi.....

 

Ed:  il brano citato é la pietra miliare del disco e il concetto di circolarità é azzeccato. A mio avviso il tratto nuovo é l’accettazione di certe situazioni, delle parentesi non chiuse, delle domande che restano senza risposta definitiva, delle sbandate che continuerai a prendere nonostante quello che credi di aver imparato e capito.

Sono cresciuto credendo in epifanie finali ma ora inizio ad accettare che le cose non stanno così; nonostante questo disco non dia soluzioni é comunque meno sospeso rispetto ai precedenti, meno irrequieto di “Beyond”, accetta serenamente l’imperfezione. La sfida quindi non é capire chi sei e diventarlo ma come rispondere alle domande ogni volta che ti vengono poste e, magari, ripetute.

 

Mescalina: queste sono le tue motivazioni, di carattere molto personale. Sarebbe bene capire i musicisti che sono con te come riescono a sintonizzarsi su aspetti così individuali. Dato che qui abbiamo una buona rappresentanza dell’organico (chitarra, piano e batteria) inizierei a sentire il parere di Francesco. Il tuo pianismo, spesso spiccatamente ritmico, come si concilia con tanti travagli?

 

Francesco: come dicevo prima quello che appare é solo la punta dell’iceberg. L’empatia si sviluppa pezzo per pezzo cercando di entrare nello spirito del brano. Che io sia più ritmico che armonico o cromatico o melodico ha poca importanza. Coi Lowlands non conta questo aspetto , che muta in funzione del brano; in “Love etc..” c’é tutto, dall’amore alla sofferenza, dalla vita alla morte. La musica diventa quindi come un cuscino, un mare magnum dove i sentimenti galleggiano e che ti culla dall’inizio alla fine. Porto l’esempio del brano finale, “Goodbye Goodnight”, che pare una ninna nanna ma che in realtà descrive una situazione molto pesante di rottura tra una coppia. Risalta quindi quel contrasto di cui si parlava e che credo tutti noi abbiamo colto come fil rouge del lavoro.

 

Mescalina: ne deriva una compattezza che é certamente in rilievo in questo lavoro. Viene quindi spontaneo chiedere al batterista come si é trovato, visto che la sezione ritmica é stata sempre la parte più tormentata e instabile del gruppo.

 

Mattia: si é trattato certamente di una sfida. Io vengo dal rock anche un po’ bastardo e quindi il percorso é stato inusuale ma interessante. Mi é arrivato il demo, che ascoltavo principalmente in auto, sul quale ho iniziato a meditare quello che potevo fare, magari abbandonando le bacchette e utilizzando altri strumenti. Nei sei pezzi in cui sono intervenuto ho cercato di mettere tutto me stesso ricorrendo al mio approccio principalmente istintivo, lontano dai testi che in genere non leggo mai. Il mio sforzo é stato quello di penetrare l’immaginario di ciò che sentivo secondo la mia sensibilità; devo dire che é andata bene.

 

Mescalina: Subentrare a Pellati non deve essere stato facile e poi ricordo che, in “Gipsy Child”, Ed mi diceva che un’ingrediente fondamentale era la batteria di radici Death Metal, genere da cui Mattia é distante.

 

Ed:  nonostante i problemi, mi ritengo fortunatissimo con le sezioni ritmiche. Alla vigilia di “Beyond” avevo adocchiato due possibilità alternative; la prima era composta da Rigo e Pellati e la seconda da Enrico Fossati e Mattia Martini. Questi ultimi stavano in un gruppo che avevo ascoltato notando il coinvolgimento di Mattia; metà dei pezzi li suonava in piedi, cantava tutte le canzoni, aveva una passione che mi colpiva. Il loro complesso stava andando bene e quindi ho ritenuto di non interferire. Quando ho realizzato il disco con Chris Cacavas la loro band iniziava a zoppicare e quindi i  miei scrupoli sono scomparsi. Nel momento in cui abbiamo iniziato a collaborare ho subito avvisato una forte compatibilità con l’approccio istintivo di Mattia.

La prova finale é stata nel concerto unplugged del’aprile 2014 per il quale ho lasciato libertà a Mattia di decidere se partecipare o meno; non ero sicuro dell’esito ma in quell’occasione lui mi convinse definitivamente, per la forza che conferiva all’acustico ma anche per come sapeva appoggiare con raffinatezza alcuni passaggi.

 

Mescalina: suonare con uno come Rigo non deve essere facilissimo. Non ti ha procurato soggezione?

 

Mattia: non ero un fan di Ligabue per cui all’inizio non lo conoscevo. Due giorni prima di suonare in teatro andai su You Tube per vedere qualcosa e mi resi conto del tipo; é un bassista che ti traina, con cui ti incastri  molto bene. Potendo fare poche prove abbiamo dovuto sintonizzarci principalmente dal vivo ma direi che adesso il sincronismo é molto buono. Pensa che i pezzi del disco sono stati registrati dal vivo con le parti di basso e batteria incise insieme prima delle altre; riuscire in brani che nemmeno conoscevamo tanto bene é stato proprio il risultato di un traino istintivo puro.

 

Mescalina: lo stampo desert-dark-root dei Lowlands avrebbe però potuto mal conciliarsi con l’approccio di un bassista reso celebre dalla collaborazione con il pop-rock di Ligabue, o sbaglio?

 

Ed: la cultura musicale di Rigo é vastissima, affonda le radici prima di Ligabue e prosegue oltre quel genere. Lui conosce il soul, il funk, il rhythm’n’blues, il country, la west coast; accede ad una palette di colori molto ampia. Io sono solito presentarlo come “lead bass” per via della sua capacità di trascinare la band ma quello che apprezzo più in lui  é la fame musicale, nonostante il suo essere un musicista “arrivato”. E’ sempre alla ricerca di cose nuove e questo lo rende molto vitale. Per assurdo la sezione ritmica con Rigo e Mattia in questo disco può apparire sprecata; chi ci ha visto all’Alcatraz si sarà reso conto dell’esplosività che sono in grado di creare.

 

Mescalina: la chitarra con Roby ha potenzialità senza limiti tuttavia, in questo disco ancor più che nei precedenti, le parti specifiche appaiono contenute, quasi trattenute. E’ stato il ricorso ai fiati, strumenti tipicamente solisti, che hanno creato questa conseguenza?

 

Roby: sicuramente rispetto ai lavori precedenti e ai live i fari sono meno puntati. Ho lavorato con Ed alla pre produzione del disco ma effettivamente le parti mie sono ridotte e paradossalmente questo mi piace. All’interno della discografia dei Lowlands le mie preferenze vanno a “The Last Call” (disco sul quale Roberto non ha suonato), il mio prediletto, e questo lavoro; in sostanza, prediligo i momenti in cui ho suonato meno. Nel primo sono intervenuto solo in fondo per cui ho vissuto i pezzi in modo diverso, me li sono goduti contemplandoli (Roberto era il fonico dello Studio dove abbiamo registrato alcune voci, entrò nei Lowlands mesi dopo); di questo disco invece ricordo le prime sessioni, Ed e io in studio a dar vita ai brani.

 

Ed: a questo proposito voglio ricordare le sedute iniziali a Pavia; Roby stava partendo per gli Stati Uniti ed eravamo riusciti ad avere un paio di giorni in studio che dedicammo alla preproduzione del disco, per realizzare dei demo da spedire agli altri affinché potessero lavorarci sopra. L’allestimento era semplicissimo: uno di fronte all’altro, due microfoni per le chitarre e due per le voci, schiacciavano il play e noi suonavamo. Non avevamo l’assillo della versione definitiva per cui abbiamo lavorato in totale libertà e leggerezza; ne é risultato che tutti i brani del disco senza batteria, sono sei, vengono direttamente da quella sessione. L’apporto di Roby magari é stato meno visibile ma é risultato fondamentale fin dall’inizio.

 

Francesco: questo credo che sia un marchio di fabbrica dei Lowlands. Fare buona la prima in studio vuol dire che la prima deve essere buona ed é tutt’altro che banale; inoltre devi saper catturare l’istintività, cosa che molti tardano anni nel fare e noi nel nostro piccolo abbiamo replicato più volte, dal disco su Woody a “Beyond”, in cui ci sono tante sonorità diverse, per arrivare alla fluidità di “Love etc..”. Dal vivo si mantengono alcuni stilemi, una sorta di canovaccio, che permette di conservare  la personalità del brano evitando l’effetto del prodotto replicato tutte le volte e valorizzando l’interpretazione. Noi stiamo all’abito fatto a mano rispetto al vestito di marca fatto in serie.

 

Mescalina: voi avete avuto un seguito abbastanza stabile nel tempo, anche se con “Beyond” Ed prevedeva ricambi nei ranghi dei fan. Che consuntivo tirate dopo “Love etc..”?

 

Roby: secondo me il pubblico dei Lowlands é disorientato. Siamo nei tempi dei format, degli standard, tutti si aspettano la cosa a cui sono abituati.  Noi non siamo questo e quindi una parte del pubblico l’apprezza ma un’altra ne rimane scombussolato.

 

Ed: Chi ha abbracciato la nostra diversità se la gode, chi invece ha puntato su un certo tipo di Lowlands fa fatica a seguirci. Ogni volta che qualcuno pensa “io amo i Lowlands” il gruppo é già tre curve avanti; non é una nostra scelta, é semplicemente il risultato delle nostre vite, il nostro movimento é continuo. Credo che abbiamo deluso soprattutto coloro che hanno voluto incastrarci in filoni predefiniti come il desert o il roots. Nella mia testa c’é una linea continua ma lo sviluppo é figlio del tempo che passa e dei musicisti che intervengono; quindi per divertirsi occorre avere fiducia in questo aspetto e non cristallizzarsi. Il prossimo disco non sarà certamente acustico coi fiati; non so ancora come sarà ma posso assicurare che non si baserà su questi schemi.

 

Mescalina: tra fissismo e mobilità c’é un terzo modo di vedere le cose. Indipendentemente dall’espressione la band ha sempre avuto una sua continuità che si potrebbe riassumere nel senso del tormento nelle cose vissute.  Questo potrebbe essere una sintesi che supera l’apparente variabilità del vostro proporsi ?

 

Ed: credo che questo rappresenti il centro di ciò che per me vuol dire fare musica. Per me suonare vuol dire essere me stesso in quello specifico momento. Se io ho vita esprimerò sempre me stesso ma in modo coerente alla strada che ho percorso, quindi in effetti il cambiamento é testimonianza di una realtà sempre coerente. Posso dire di fare sempre lo stesso disco nel senso che propongo una fotografia identicamente onesta di quello che sono.

 

Mescalina: ancora una volta ci ritroviamo con considerazioni personali, che portano quasi a considerare i Lowlands come una band di cantautorato rock. Quindi, di nuovo ai musicisti che ti affiancano, come riuscite a restare sintonizzati con continuità in questa balia di onde?

 

Roby: ricordo il periodo di “The Last Call”, quando registravo con Speroni che mi traduceva al volo i testi di Ed. Ricordo di essermici ritrovato parecchio, nonostante le differenze di provenienza. Poi venne “Gipsy Child” e il periodo successivo in cui partecipavo di più anche alla nascita dei brani. E’ vero che la band può essere considerata cantautorale ma racconta storie che, in qualche modo, ci riguardano o ci toccano, almeno per quel che mi riguarda.

 

Mattia: non leggendo i testi posso dare una risposta dal punto di vista dello stimolo ritmico. Il mood di Ed porta spesso a tempi swingati o blues che originariamente non mi appartenevano ma che mi stimolavano per la loro novità. Le mie radici erano sul 4/4 con cassa e rullante, la spinta verso qualcosa di diverso mi ha stimolato proprio come in un rapporto a due in cui l’uno si muove verso l’altro per  il senso del sodalizio.

 

Mescalina: tempi dispari pare che ne usiate pochi. Come mai?

 

Francesco: in questo disco ne abbiamo fatto ricorso più del solito

 

Mattia: personalmente non ce li metterei mai. A me piace il flusso, proseguirei anche per dieci minuti sullo stesso beat, io cerco qualcosa che vada avanti fluida e in modo semplice.  Dei Lowlands quello che mi appartiene abbastanza è un certo senso di turbolenza, di inquietudine sul quale ci ho messo del mio per inserirmi.

 

Mescalina: il pianista cosa dice?

 

Francesco: io ero abituato a scrivere, diciamo ad essere l’unica autorità compositiva per il gruppo con cui suonavo (I Gamba D’Legn). Per me quindi la maggior difficoltà coi Lowlands è stata entrare in sintonia con quanto Ed portava.  In questo caso infatti non si tratta di confrontarsi con una linea ritmica  melodica ma con una storia che richiede un rispetto completamente diverso. In questo senso il confronto è stato difficile, lo riconosco, ma anche molto stimolante; il tutto si gioca su un piano di esperienze che si intersecano o che sono parallele e l’incontro è di tipo emotivo, certamente non immediato e banale. Questo però è quello che,  a mio avviso, ci fa piacere al pubblico quando siamo sul palco; ci presentiamo “in mutande”, siamo nudi, noi stessi, e la cosa viene recepita con chiarezza. A riprova di questo ricordo con piacere che alcuni amici dell’audience mi dicevano che la musica era talmente bella che desideravano capire meglio i testi. Un atteggiamento inusuale da noi; chi ascolta i cantautori è abituato a questo approccio ma chi sente altra  musica generalmente si accosta con un’aspettativa più “fisica”. Il fatto che sia seguito l’interesse alle parole è segno che il messaggio è arrivato a destinazione.

 

Ed: quando suonammo all’Alcatraz c’erano un migliaio di persone. Di queste solo un dieci percento erano nostri sodali, gli altri non ci conoscevano. Mi piacque quando mi dissero che non sapevano chi guardare sul palco, non individuavano il front man. Questo è esattamente ciò che mi interessa; lo scopo non è far leva sugli individui ma far piombare addosso a chi ci ascolta quello che facciamo. Se ci fai caso da noi quando uno esce in rilievo, sia esso la chitarra  o il piano o i fiati, gli altri istintivamente si ritraggono e lo sostengono; è una forma di solidarietà di gruppo che porta all’effetto che dicevo.

 

Mescalina: più volte mi avete ricordato i Belle & Sebastian. Non certo come genere ma come riduzione della dinamica rispetto all’ensemble; in altre parole, siete in tanti ma suonate come se foste in pochi. Volendo provocare, questo accade perché Ed vuole comunque mantenere se stesso davanti a tutti?

 

Ed: voglio riportarti a una conversazione che avemmo ai tempi di “Gipsy Child”; allora ti dissi che la mia concezione di band è quella di un gruppo ritmico, che sa distendersi e tendersi in alternanza. Può essere che ci sia del mio ego in tutto ciò ma per me predomina il pezzo sull’individuo. Sarà perché io sono più orientato ai cantautori che ai musicisti singoli ma sta di fatto che per me chi è funzionale al brano in quel momento va bene, indipendentemente da scelte personali.

 

Francesco: è inevitabile che in fase compositiva ciascuno esca con la sua dimensione. Tuttavia i pezzi spesso nascono su di un canovaccio rispetto al quale non è raro che il risultato finale li stravolga. Questo perché, in modo del tutto naturale, c’è un’interazione in cui ognuno porta la sua sensibilità e la sua palette di colori. Ed magari chiede qui una maggior dinamica e lì un’enfasi minore; ne nasce una dinamica che non è unidirezionale ma si basa su di un dialogo che rappresenta l’aspetto più complesso del nostro lavorare. Sarebbe molto più facile limitarsi ad eseguire diligentemente, altro è cercare di capirsi e dare una forma condivisa. Con tutti i limiti del paragone vorrei ricordare quello che ha fatto la PFM con De André, perfetto esempio di una sintesi interpretativa che ha rispettato la matrice rinnovandone l’espressione tramite una chiave condivisa.

 

Mescalina: nell’esempio che citi ci fu un gran lavoro di arrangiamento. Nel vostro caso pare che tendiate più a sottrarre che a colorare

 

Francesco: per arrangiamento non puoi intendere solo il lavoro di elaborazione melodica o armonica. Quello che si cogli nei Lowlands sono principalmente due cose: la dinamica dei vuoti e dei pieni e l’incastro delle note.

Alternare parti di strumenti è relativamente semplice, molto più complesso è far corrispondere due note di due voci diverse nella stessa misura. E’ come nel caso di un coro, che rappresenta una situazione più ostica rispetto a quella di un cantante solo.

 

Ed: qui vorrei sottolineare un concetto ad evitare un equivoco. Personalmente rifiuto l’idea del “buona al prima”; preferisco parlare di naturalezza. La regola, quasi a mo’ di barzelletta, è quella delle tre takes; meno significa che non stai facendo al meglio, oltre vuol dire che non ti riesce spontaneamente. Si tratta di trovare l’equilibrio che comunque assicuri, come dicevo, la naturalezza.

 

Mescalina: volendo seguire questo ragionamento, che rilevanza ha l’improvvisazione per voi?

 

Roby: io improvviso molto ma mi attengo al canovaccio. E’ certamente un elemento molto presente, non solo nei soli ma anche nelle ritmiche e nella crescita del pezzo. Dal vivo è un fattore di rischio ma credo sia fisiologico. Raramente c’è una struttura fissa nella quale a parti determinate corrispondano ruoli fissi, in generale ci chiamiamo.

 

Ed: è vero ma non sempre. Per esempio i fiati in questo lavoro avevano due parti, una improvvisata ed una scritta; sul disco ho deciso di togliere la prima e di lasciare quella composta. Questo perché le impro mi sembravano troppo invasive. Dal vivo è un altro discorso, di loro mi fido perché sono eccellenti musicisti; il disco è cosa diversa, lì preferisco controllare le misure. Devo anche ammettere che i fiati erano una novità per la band; il mio sogno è che un giorno ne costituiscano parte organica come gli altri, acquisendo pian piano quella sintonia che mi pare stia nascendo.

 

Francesco:  mi è capitato diverse volte di lavorare con i fiati, elementi che principalmente lavorano su partitura. Sovente mi facevano notare il mancato rispetto del numero delle misure, cosa che in realtà accade spesso nell’impeto dell’esecuzione live e che non dovrebbe costituire un ostacolo se ascolti bene quello che sta facendo il compagno. Nel nostro caso è stato bello vedere come i fiati hanno saputo adattarsi ai nostri schemi; questo sia grazie alle doti professionali dei musicisti e anche alla loro sensibilità armonica. Normalmente la sezione fiati è attenta alla melodia e alla polifonia, noi abbiamo riscontrato anche una grande sensibilità armonica. Inoltre si sono inseriti perfettamente nelle nostre strutture, nei nostri vuoti e pieni, negli incastri e nelle crescite su parti ritmiche. 

 

Mescalina: resta comunque l’impressione che nel vostro proporvi prevalga il senso del collettivo e dell’idea rispetto all’intervento del solista.

 

Ed: noi abbiamo sempre chiesto ai musicisti di non preoccuparsi della parti loro ma di sentire la band, questa poi avrebbe restituito loro lo spazio. Nel momento in cui un solista si appropria della sua parte rischia di diventare un corpo estraneo. Una volta la nostra solista era Chiara (Giacobbe, violinista – nda); uscita lei le parti dei singoli si sono distribuite naturalmente e spontaneamente su Roby e Francesco proprio grazie a questa regola. È un fatto che emerge anche nelle recensioni di “Love etc..”, che riconoscono a Francesco un effetto di fil rouge ottenuto più che come solista come contributore al gruppo. Di Roby mi piace ricordare non tanto le indiscusse qualità di strumentista quanto l’abilità nel capire come gonfiare o sgonfiare un pezzo, che si sono poi trasmesse agli altri membri del gruppo.

 

 

Mescalina: andiamo per un momento al quinto brano , “You and I”; un pezzo molto intenso in cui ci sono solo voce, chitarra, violoncello e pianoforte. Un setup minimale per il massimo risultato; qui sembra addirittura che laddove meno musicisti ci sono migliore é il risultato.

 

Roby: ragionando da produttore ti dico che secondo me il brano ideale é chitarra e voce, con qualche strumento che dà il colore aggiuntivo ma niente di più. Nei nostri dischi ci sono altri pezzi come questo, penso a “Gipsy Child” e a “He left” per esempio; sono brani che non hanno bisogno di nulla.

 

Ed: probabilmente l’abbiamo piazzato bene nella scaletta, azzeccando i giochi di vuoti e pieni di cui si parlava. Comunque il brano non é così vuoto come dici, nella seconda parte c’é un intervento del piano che lo muove molto, ci sono gli archi, insomma qualcosa succede. Credo che si debba considerare il disco; in questa logica “You and I” beneficia dei pezzi circostanti e questi a loro volta traggono vantaggio da lui, non é un pezzo a sé ma si incastra in un programma.

 

Mescalina: qui FORSE hai ragione. Il pezzo prima, “You, me, the sky and the sun”, é in effetti molto diverso con uno stomp in netto contrasto.

 

Ed: pensa che é un brano che avevo scritto prima di “The Last Call”, lo abbiamo inciso e volevamo metterlo in “Gipsy Child ”. Non mi é mai particolarmente piaciuto, sembrava potesse avere un posto nei vari dischi ma poi succedeva il contrario. Il basso di Rigo e i fiati gli hanno dato la dimensione giusta. Evidentemente é un pezzo che non riesco a scrollarmi di dosso, adesso che l’ho fatto uscire non dovrò più tornarci per i prossimi lavori.

 

Mescalina: proseguendo nella lettura del disco “Happy Anniversay” non é un ossimoro? Lo sviluppo del pezzo contrasta con le aspettative del titolo, o no? Non si capisce se é un auspicio, un consuntivo, una constatazione; trionfa il senso del dilemma.

 

Ed: I wanna be” e “Happy Anniversary” sono due brani che rischiavano di essere tolti dal disco ma in realtà li abbiamo tenuti perché hanno tracciato la linea dell’album.  “Happy Anniversary” é esemplificativo nel non dare risposte, rappresenta l’accettazione del non poter risolvere certe situazioni, dell’andare avanti. La storia non finisce oggi ma dopodomani, ci aspettano un po’ di curve che nessuno conosce. Quello che conta é la parte di strada fatta insieme, non c’é un arrivo ma il senso sta in quello che hai fatto.  Inoltre la parte dei fiati é a mio avviso molto bella.

 

 Mescalina: un senso esistenzialista quindi, prescindi da un inizio, una fine e una morale. I Lowlands hanno imparato da Jean Paul Sartre?

 

Ed: non mi alzerei così tanto. Però ricordo che “Beyond” si concludeva dicendo, magari in modo un po’ vago, che prima o poi ci saremmo ritrovati per capire. Adesso il passo é: capito che non capiremo alcunché, che dopo la svolta non c’é la pianura ma un’altra montagna, concludiamo che la vita sta nel viaggio e non nelle mete.

E’ comunque un passo avanti; prima pensavo bisognasse cercare solo le risposte, adesso intendo che già dalle domande si ottiene qualcosa.

 

Mescalina: se così é la ripartenza annunciata dopo “Beyond” é sospesa, sei coi lavori in corso, stai riparando la nave. Tuttavia classificherei il disco come “sereno”, pacatamente dedicato a prendere atto della situazione.

 

Ed:  sì, é corretto, abbiamo capito di aver subito perdite, bisogna capire e decidere dove andare. E’ un’affermazione onesta. E certamente riconosco di ambire alla serenità.

 

Francesco: qualcuno potrebbe domandarsi cosa diavolo stiamo dicendo, in definitiva il disco é bello da ascoltare. Tuttavia credo che tutto ciò sia vero e sia un grosso complimento; il prodotto finale é profondo e questo è un bel consuntivo. Inoltre una curiosità; questo é il lavoro con il maggior numero di canzoni in maggiore dei Lowlands, tonalità notoriamente più gioiose.

 

Ed: se ci pensi bene siamo partiti nel 2008, sei anni fa, nemmeno un’eternità. In questo periodo abbiamo aggredito quello che dovevamo aggredire, con ogni nostra forza. In questo disco ti trovi sudato e ti chiedi che cosa stavi combattendo, quasi stessi vivendo un incontro di wrestling continuo....il desiderio dei riconoscimenti, la mancanza di questi.... In definitiva mi sento rimasto solo con me stesso. Questo lavoro é quasi come un porto franco, in cui vivere questo momento per passare al prossimo disco che sarà quello che sarà ma sarà diverso da questo. Non ci avevo mai pensato ma, dopo quello che stiamo dicendo, riconosco che il disco é una conversazione con me stesso, come una telefonata in cui non senti l’altra persona.

 

Mescalina: questo forse é il valore aggiunto principale del disco. “Beyond” chiudeva ed apriva una possibilità, qui la pausa prosegue.

 

Ed: molti pezzi sono stati registrati nella versione della prima scrittura. Ad esempio “Wave me goobye” la scrissi a Rimini, in versione acustica e così é restata; parla di un suicidio di un qualcun che avendo fatto quello che doveva fare e dire quello che doveva dire ha deciso di chiudere. Non é un dramma, é un atto cosciente. Non c’é morbosità, va bene così. Comunque non vorrei esagerare; una canzone non deve spiegare quello che vuole dire, é l’ultima cosa che deve fare. Deve entrare nella testa dell’ascoltatore come lui la recepisce ed occuparne tutto lo spazio a disposizione, come un gas, senza pretese di proclami.

Che dire poi di “Can’t face the distance”? E’ ispirata ad un amico morto e rappresenta la vita che spezza tutto, l’amore che viene interrotto indipendentemente da come e quanto tu lo voglia proteggere ma che rimane l’unica cosa che hai; figli – genitori, marito – moglie, amico – amico, sono tutte situazioni destinate ad interrompersi ma sono quelle che danno un senso a quello che fai e in quel cerchio tu vivi, é l’unica strada che puoi percorrere.

Credo che qui si trovi il senso più profondo del disco.

 

In realtà la conversazione era continuata ancora per qualche minuto ma pensiamo sia meglio fermarci qui, sulla cadenza di Ed che dichiara il significato di un lavoro che andrebbe studiato e non solo ascoltato. Entrare in sintonia coi Lowlands é sempre stata una bella esperienza.

A chi già conosce il lavoro suggeriamo di riascoltarselo dopo aver letto l’intervista; sarà interessante ed arricchente (a chi scrive perlomeno è successo questo).

Agli altri consigliamo spassionatamente di accostarcisi e, magari, di recuperare qualcosa dal passato di questi figli delle lande basse.

Alla prossima.