Attilio Zanchi

interviste

Attilio Zanchi Il Jazz visto dall'alto

24/11/2013 di Vittorio Formenti

#Attilio Zanchi

Attilio Zanchi è un bassista che da tempo è entrato nel gotha nazionale e non solo del genere; il suo curriculum in termini di studi, collaborazioni, lavori solisti ed insegnamento (è docente di Jazz al conservatorio di Milano) lo rendono un protagonista attivo, partecipe a tutte le evoluzioni che questa musica ha avuto negli ultimi 30 anni. L’interesse ad avere un colloquio con lui sullo “Stato dell’Unione” era quindi molto alto. Dato che Attilio oltre che musicista eccellente è anche persona squisita ci ha confermato la sua disponibilità per un incontro sul tema; la conversazione è stata organizzata nella tranquillità della sua casa di Milano e di seguito ne riportiamo i contenuti, principalmente orientati ad un esame in generale del jazz, che riteniamo possano essere molto utili sia agli appassionati ma anche stimolanti per chi intende avvicinare per la prima volta questa splendida arte.


Intervista a Attilio Zanchi  (foto di: Roberto Cifarelli)

  

Mescalina : il primo quesito, che abbiamo già posto anche ad alcuni tuoi colleghi, riguarda il peso specifico che molte storiografie del jazz riconoscono ai primi 50 anni di vita, diciamo dal 1920 al 1970, rispetto a quelli successivi che, pur interessando le fasi più recenti, sovente non si vedono dedicato più di un quarto del testo. Perché? Il jazz è morto e quindi se ne parla solo al passato?

 

Attilio: il jazz non è assolutamente morto. Fin dalla sua nascita è stata una musica generata da mescolanze di culture e razze varie, il che gli ha conferito una vitalità quasi tentacolare, in grado di abbeverarsi a  fonti sempre nuove e diverse; per questo io ritengo che non solo non sia scomparsa ma che non morirà mai.

È vero che in certi periodi del jazz classico gli stili avevano connotati più definiti, basti pensare allo swing o al bebop o al cool; nei tempi più moderni questa categorizzazione è sfumata per via delle influenze assorbite da altri generi venuti parallelamente alla ribalta come il rock, la musica etnica, la musica contemporanea.

Questa tendenza è a mio avviso un vantaggio, soprattutto per i contatti con la componente etnica che permettono a molti popoli di esprimere questa musica virata secondo le proprie culture e le proprie tradizioni, con un arricchimento ed un aggiornamento importante.

 

Quello che tu sottolinei è una conseguenza del fatto che spesso chi  scrive  ha una visione sostanzialmente storica del fenomeno; in generale è difficile  esaminare criticamente i fatti nel momento in cui succedono, questi appartengono più alla cronaca che alla storia.

C’è anche da tener presente che il periodo fino agli anni ’60 è ormai stato analizzato e documentato in abbondanza per cui è più semplice partire da quelle basi piuttosto che tentare di  formare un giudizio su qualcosa che sta ancora accadendo.

 

Mescalina :il principio è chiarissimo tuttavia la dilatazione temporale del periodo transitorio, diciamo della cronaca, in questo caso appare superiore rispetto ad altri generi. Per esempio nel rock non si aspetta certo che passino 50 anni prima di  consolidare un fenomeno. Molti sostengono che un motivo di ciò sia legato ad una sorta di  interruzione creativa che il jazz avrebbe avuto negli anni ’80, principalmente vissuti come anni di rifacimento o di revival. Questo avrebbe interrotto l’attenzione della critica e causato questa discontinuità. Cosa ne pensi?

 

Attilio: (lunga pausa) faccio fatica ad inquadrare questo fatto nel decennio che dici; certamente ci fu un periodo diciamo di “restaurazione”, in cui gli artisti si dedicavano più a richiamare vecchi generi che a creare nuove tendenze, questo sì.

Tutto sommato la dinamica storiografica che citavo è tipica anche della musica classica; se ben ci pensi  il grosso degli  studi e delle analisi si  ferma agli anni ’20 o ’30 lasciando in netta minoranza gli studi delle tendenze successive, quelle più tipiche della musica contemporanea, assai meno analizzate.

Credo che il motivo di fondo stia proprio nell’approccio storiografico che, in generale, chi si accinge a scrivere tende ad assumere.

 

Mescalina : ti butto lì un altro elemento di possibile motivazione. Nella sua fase classica il jazz annoverava individualità di spicco; se si dovesse pensare a cinque geni del genere verrebbero in mente nomi quali Louis Armstrong, Duke Ellington, Charlie Parker, Miles Davis e John Coltrane ….

 

Attilio: sì, condivido la lista anche se ci aggiungerei Bill Evans e Charlie Mingus come minimo …

 

Mescalina : d’accordo; il periodo moderno sembra difettare di queste presenza. Certamente ci sono importanti protagonisti come John Zorn, Dave Douglas, Dave Holland, Steve Coleman ma sembrano mancare i veri  e propri leader e capiscuola.  Questo potrebbe aver contribuito ad associare un peso specifico diverso ai  due macroperiodi in questione?

 

Attilio:  Steve Coleman credo sia stato più uno che ha seminato che uno che ha tenuto; la sua opera è stata importante negli anni ’90 ma oggi appare poco. Potremmo magari aggiungere all’elenco anche Wynton Marsalis, pur essendo più un restauratore che un creatore.

Tra i nomi che hai fatto io considero Dave Holland un vero e proprio innovatore; pur partendo dalla tradizione è sempre andato  inserendo elementi nuovi, aggiuntivi, partendo da influenze orientali, assimilando metriche dispari e dando vita ad un interessante ripresa delle improvvisazioni collettive introdotte da artisti come Mingus; anche Keith Jarrett trovo sia da considerarsi un elemento di  rilievo ai sensi dell’innovazione che parte dalla base tradizionale.

 

A mio avviso questo modo di operare è il più corretto; disponendo di una tradizione è giusto tenerne conto altrimenti corri il rischio di infilarti in un vicolo cieco come è accaduto alla musica contemporanea che, per l’eccesso di rifiuto della storia, è diventata sovente astrusa ed autoreferenziale, musica solo per musicisti.

Io ritengo invece che l’elemento comunicativo sia un ingrediente fondamentale, anche se non sempre corrisponde ad una produzione di livello artistico.

 

Mescalina:  Nella musica contemporanea probabilmente la causa di fondo di una certa astrusità risiede nel fatto che ogni musicista si  inventa un suo linguaggio (pensiamo allo strutturalismo di Boulez o alle divagazioni sui reticoli di Xenakis), non lo spiega nemmeno e nessuno lo capisce.  Non pensi che anche un certo jazz moderno, come quello di certi radicalismi alla Zorn, possa correre questo rischio?

 

Attilio: per il jazz, in generale, non vedo questo rischio. Quando iniziai a suonare, negli  anni ’70, il free jazz andava molto di  moda nonostante potesse apparire, almeno ad un primo approccio, ostico e respingente. Tuttavia ho memoria di numerosi concerti di free che venivano seguiti, apprezzati ed anche capiti. A mio avviso quello era il loro tempo e, più in generale, nel jazz ogni espressione ha il suo periodo, al di fuori del  quale perde presa. Semmai questo può essere il problema che le varie espressioni jazzistiche possono soffrire con il trascorrere delle epoche.

Riconosco comunque che qualche interprete esageri e finisca con l’incappare in questo inconveniente, ma sono fatti più episodici che strutturali del genere.

 

Mescalina : cosa mi dici dei rapporti tra jazzisti e musicisti  “colti”? Tu che insegni al Conservatorio certamente vivi correntemente questa situazione.

 

Attilio: Fino a un po’ di tempo fa eravamo visti con un po’ di  diffidenza; oggi le cose sono migliorate vuoi per il ringiovanimento della classe insegnante e vuoi perché di frequente gli studenti entrano nel Conservatorio per studiare proprio il jazz, che sentono come espressione più moderna. Certamente non abbiamo acquisito potere ma almeno il rispetto nei nostri confronti è migliorato..

 

In alcuni casi succede anche che ci venga chiesto di collaborare in alcune classi  di composizione, anche se in misura piuttosto limitata. Qui pesa molto il fattore anagrafico degli insegnanti che, se giovani, risultano generalmente più aperti per via  del contesto in cui sono cresciuti; quando si parla di rock o di jazz fanno meno fatica a capire di che si tratta.

 

Mescalina : in occasione di una conversazione con un pianista relativamente giovane, diplomato al Conservatorio ma poi avviatosi nell’ambiente della musica leggera, questi sosteneva che fare jazz senza aver studiato Bach era sostanzialmente impossibile; la grammatica di base  sarebbe venuta meno e ne sarebbe sortita una musica troppo povera. Che ne pensi?

 

Attilio: mi sembra eccessivo. Bach è certamente importante come ausilio soprattutto perché, indipendentemente dallo strumento che suoni, il suo repertorio propone moltissimo materiale ricco di tecniche di arpeggi, contrappunti, modulazioni; inoltre l’esecuzione è spesso complessa per cui è una scuola sicuramente importante,, principalmente da un punto di vista melodico e in parte armonico.

Nel jazz ci sono comunque altri aspetti che trovano meno fondamento in Bach; il ritmo per esempio, estremamente vario nel jazz e invece sempre molto quadrato, basato su quartine piuttosto statiche e lineari in Bach.

Se vogliamo arrivare a dei riferimenti direi che Bach è utile soprattutto dal punto di vista melodico; dal punto di vista armonico ritengo sia più influente la scuola impressionista di Debussy e Ravel, molto studiata soprattutto dai pianisti; per il ritmo il riferimento è certamente la musica africana.

Naturalmente queste tre dimensioni si compenetrano, per cui Bach non mi pare possa essere citato come unico fondamento da assumere per un jazzista.

 

Mescalina : tempo fa in un’intervista Paolo Conte, musicista attento ed appassionato del genere,  aveva sottolineato un certo limite del jazz nell’uso delle modulazioni armoniche. E’ vero?

 

Attilio: l’affermazione può essere corretta se la riferiamo al jazz modale: Davis e Evans negli anni 60 suonavano su scale modali, sovente non più di due, e quindi questo aspetto era limitato.

In altri casi invece è vero esattamente l’opposto, ci sono momenti del be bop dove hai modulazioni armoniche a ripetizione, spesso sono di tipo transitorio per cui durano un paio di  misure e poi rientri nella tonalità di  base.

In sede di insegnamento a me piace ricorrere al concetto di “regioni di modulazioni”, cioè insiemi di variazioni di tonalità vicine e compatibili a quella di  base per cui è possibile modulare in modo morbido mantenendo la prevalenza della tonalità fondamentale.

 

Mescalina : questi elementi intervengono soprattutto in fase di improvvisazione o vanno stabiliti a livello di composizione, in fase di scrittura della musica?

 

Attilio: questi sono elementi che appartengono alla scrittura; quando improvvisi in generale ricorri a cromatismi, esci dalla scala base e poi  ci rientri; gli americani chiamano questi meccanismi “in & out”.

 

Ci sono musicisti che, in  fase di scrittura, ricorrono a codifiche personali e non ortodosse; questo è ricorrente nella musica contemporanea ma accade anche nel jazz, basti  ricordare il simbolismo numerico di Braxton.

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Mescalina : e chi riesce a decodificare questi simboli?

 

Attilio: molto probabilmente con queste tecniche di  scrittura il compositore non riesce ad ottenere con certezza ciò che intende ma, in definitiva, secondo me questo effetto è voluto per rendere l’esecuzione più aleatoria, soggettiva. In questo casi i compositori tendono a circondarsi di musicisti selezionati sulla base della reciproca intesa e fiducia.

 

Mescalina : passiamo ora al rapporto che il jazz intesse con le musiche popolari, non di provenienza accademica. Rock, etnica, folk sono componenti che appaiono più facilmente e frequentemente assimilate; la ragione è legata alla loro relativa “semplicità” che ne permette un accesso immediato?

 

Attilio: beh, non tutte sono così semplici. Ad esempio, la musica indiana ha dei cicli  ritmici molto lunghi e dilatati, non basati sulle nostre battute; questo ne rende complesso l’utilizzo che sovente si limita all’ispirazione ed alla colorazione di una composizione. In altri casi  quello che dici è invece vero; alcune musiche si basano su  cellule molto  brevi che permettono una libertà maggiore all’improvvisazione o alla creazione aggiunta.

Per quel che riguarda il rock l’uso che il jazz ne fa è, generalmente, per colorare i brani ricorrendo ai  suoi suoni e ad alcuni suoi  ritmi.

 

Mescalina : ma l’uso che ne facevano i Weather o i Nucleus, giusto per fare qualche esempio, pare più complesso ed articolato.

 

Attilio: la grammatica della maggior parte (con varie eccezioni) del rock non è molto complessa. L’armonia si basa su  poche scale, quella blues, la pentatonica minore, meno la maggiore; il materiale di base è piuttosto  ridotto mentre nel jazz si ricorre a una varietà più ampia di ingredienti. La musica dei Weather Report si basava comunque su di una improvvisazione collettiva con forme aperte che non provenivano dal rock, da cui ritengo abbiano preso appunto più il colore che non la sintassi vera e propria.

 

Mescalina : però Miles Davis, per sua stessa affermazione nell’autobiografia (libro eccezionale, da leggere assolutamente – nda), nel periodo post anni ’70 teorizzava proprio il ricorso a frasi brevi, corte, di derivazione rock o funk. L’idea  pare essere più strutturale che puramente formale.

 

Attilio: probabilmente la sua intenzione era di ricorrere a quello schema statico, quasi ipnotico che certi ritmi binari del rock assicuravano per poi far succedere le cose sospese su queste scansioni ipnotiche. Ricordiamoci che in quel periodo lui ascoltava Hendrix, James Brown, Sly & the Family Stone, stava con una ragazza che l’aveva portato verso quella direzione che andava oltre il jazz, era più una ricerca sonora, ritmica ed anche estetica; basti pensare al cambio che ebbe nel suo modo di vestirsi e di  atteggiarsi.

Tuttavia la parte aleatoria rimaneva e quella non era di matrice rock.

 

A questo proposito ti racconto un aneddoto, che risale a quando io studiavo con Dave Holland negli States.  Quando Davis, dopo averlo sentito a Londra, lo aveva chiamato a suonare con lui (Holland aveva 18 anni); Dave salì sul palco senza aver visto Davis né aver provato prima; Herbie Hancock l’aveva portato a casa per mostrargli la scaletta, basata su standards che Holland conosceva un po’, ma poi  salì direttamente sul palco così, a sbalzo.

Nel rock questo è più difficile che accada.

 

Mescalina : e in questi casi, che paiono quasi la sublimazione del jazz verso la libertà assoluta, come se la cavano i musicisti?

 

Attilio: bisogna sapere ascoltarsi e conoscere bene il linguaggio. Quando parte una certa frase tu devi sapere dove porterà, cosa intenderà significare. Il processo è molto semplice a descriversi: ascolti, decodifichi perché conosci la lingua, agisci di conseguenza. A farsi è un po’ più complesso.

 

Mescalina : un linguaggio però può  avere significati diversi in funzione della persona che lo usa. Questo significa che per rendere virtuoso questo meccanismo  i musicisti dovrebbero avere buona conoscenza anche della personalità del compositore.

 

Attilio: certo, infatti questo processo tante volte è destinato a produrre scarsi risultati mentre nelle situazioni in cui  tutto è compatibile crea qualcosa di nuovo. Può funzionare o meno in funzione delle varie compatibilità.

 

Mescalina : questo excursus ci porta a ricordare il fenomeno delle jam sessions. Facendo un bilancio complessivo, ammesso che sia possibile, si tratta di un fenomeno che ha creato qualcosa o il più delle volte sfocia in un eccesso di show fine a se stesso?

 

Attilio: dipende dai periodi. Negli anni ’40 i musicisti di  sera normalmente suonavano in locali da ballo o di intrattenimento e poi, per sfogarsi, celebravano queste sessions a tarda ora in cui facevano quello che credevano. Furono quindi un grande laboratorio che diede vita a genere come il bop.

Oggi possono servire come apprendistato e pratica per i musicisti, come accadde a me quando suonavo al Capolinea; tuttavia il rischio di annoiare il pubblico con una cosa un po’ fine a se stessa oggi è molto più alto, difficilmente entrano a far parte di un progetto.

 

Mescalina : addentriamoci un po’ nei meandri  del tuo strumento: il basso. E’ sovente un elemento che si ascolta marginalmente,  dal quale ci si aspetta un po’ di  ritmo sul beat, il tocco giusto  per la tenuta armonica ma poi l’attenzione passa ad altri solisti. In realtà cosa si  chiede al basso nel jazz?

 

Attilio: il ruolo che hai richiamato tu era quello classico nel jazz storico; oggi ci sono molti bassisti in grado di sostenere parti soliste del tutto equivalenti a quelle dei pianisti o altri. E’ chiaro che il timbro del basso richiede un approccio più fisico, lo si ascolta quasi con la pancia; è uno strumento di cui si sente la mancanza quando non c’è, i toni gravi hanno un ruolo fondamentale nel dare corpo ad un brano. Poi per apprezzarlo occorre avere una certa fedeltà nella riproduzione o una buona qualità dell’ambiente, altrimenti tende ad essere tagliato o a rimbombare.  Acusticamente è certamente un elemento delicato.

 

Mescalina : cercando di esemplificare, cosa distingueva uno Scott La Faro da un Oscar Pettiford piuttosto cha da un Charles Mingus?

 

Attilio: Scott La Faro certamente eccelleva nell’interplay ed era un grande virtuoso dello strumento. Pettiford e Mingus avevano radici nella tradizione, erano meno avventurosi di  La Faro, avevano tuttavia un suono eccellente , una “cavata” unica (capacità di conferire con le dita un timbro personalizzato alle corde – nda) e soprattutto sapevano imporsi all’interno di un ensemble.

 

Mescalina : se volessi fare una lista dei  principali bassisti della storia del jazz chi includeresti?

 

Attilio: inizierei senz’altro da Jimmy Blanton, bassista di Ellington negli anni ’30 e morto  giovanissimo; fu l’unico ad avere l’onore da Duke di registrare quattro brani in duetto con lui, a testimonianza del ruolo portante che gli  veniva riconosciuto. Ellington rifece quei brani negli anni ’70 con Ray Brown, a riprova del valore che annetteva loro. Blanton fu il vero e proprio precursore.

 

Poi metterei Pettiford, Mingus, Ray Brown e soprattutto Scott La Faro, vero innovatore che influenza i meccanismi adottati ancora oggi.  Tra i moderni indicherei certamente Dave Holland come il principale.

 

Mescalina : il basso può costituire la base di partenza di una composizione o resta principalmente uno strumento di ausilio”?

 

Attilio: dipende; io per esempio compongo anche brani che partono da dei riff sostenuti dal basso e in questi casi lo strumento diventa il protagonista. In altri casi, quando i pezzi per esempio nascono al piano, la dimensione melodica ed armonica prevalgono e quindi il ruolo diventa più tradizionale.

 

Mescalina : facciamo anche un cenno alla realtà del jazz italiano. Partita in ritardo rispetto agli  Stati Uniti, nel ’40 con Kramer e nel ’50 con un buon movimento West Coast, oggi pare presentare ottime realtà soliste.

 

Attilio: certamente, oggi ci sono molti musicisti in grado  di competere a livello internazionale su tutte le scene.  Ricordo Fresu, Rava, Bollani, Pieranunzi, De Andrea , ce ne sono tantissimi; in genere sono artisti che hanno una loro precisa personalità e, anche quando partono da una base ”americana”, riescono ad imprimere alla musica un caratteristica di originalità piuttosto evidente.

Questo elemento è particolarmente apprezzato quando si va all’estero, ove emerge con facilità la particolarità del nostro lirismo e del nostro senso melodico.

Direi che oggi lo stato di salute del nostro jazz è eccellente e non giustifica alcun complesso d’inferioritàverso terzi.

 

Mescalina : come consigli ad un giovane, abituato ad altri generi, di accostarsi al jazz ?

 

Attilio : io penso che la cosa migliore sia quella di iniziare ascoltando dal vivo; la componente visiva ho notato essere stata spesso importante per un ascoltatore alle prime armi con il genere. Il semplice ascolto può annoiare, rendersi conto di quello che succede sul palco aiuta molto ad apprezzare il risultato musicale. In quanto al tipo di jazz da scegliere al primo approccio credo non ci siano chiavi predeterminate; è una faccenda molto personale e dipende principalmente dagli ascolti a cui uno abituato. La nostra generazione per esempio, cresciuta con certa musica degli anni ’70 generalmente più complessa del rock di oggi, si accostava facilmente anche partendo da artisti che facevano una musica molto articolata; oggi dipende da quello che uno è abituato a sentire.

 

Mescalina : per concludere, solita domanda impegnativa: quali  sono i cinque dischi dell’isola deserta per Attilio Zanchi?

 

Attilio: beh, cinque sono decisamente pochi ma direi:

 

Porgy & Bess  nell’interpretazione di Ella Fitzgerald e Louis Armstrong  (ma va bene anche quella di Miles

Davis con Gil Evans)

 

Un disco a scelta di  Charlie Parker (si consiglia la raccolta “In a soulful mood” – nda)

 

Live at the Village Vanguard di Bill Evans

 

Kind of Blue di Miles Davis

 

Such Sweet Thunder di Duke Ellington

 

Ma ne restano fuori troppi : Coltrane, Mingus, Jarrett,….

 

E qui termina una conversazione che,  a consuntivo, è risultata facilissima da riportare su carta; questo grazie alla conoscenza che Attilio ha della materia che gli ha permesso di essere molto solido sui contenuti  senza inutili divagazioni.

Crediamo che la sintesi riportata, che poi è la cronaca di quanto intercorso, possa essere di interesse per molti; non è sempre facile disporre di un maestro di questo tipo.

Grazie di cuore Attilio e, ci auguriamo, a prestissimo.