interviste
Michele Gazich Un violino, tante emozioni: quattro domande a Michele Gazich
Incrociare la poetica di Michele Gazich e' un dono della vita, soprattutto in occasione dell'uscita del suo nuovo album, Argon. Abbiamo rivolto quattro domande al violinista e cantautore.
D. La prima impressione che suscita l’ascolto del disco è che si tratti del frutto di un lavorìo incessante non solo di scrittura, ma anche di lettura, come se l’urgenza fosse condensare i riferimenti letterari in una partitura musicale. Come hai potuto realizzare questa sintesi?R. Sì, il lavorìo è stato incessante e mi ha accompagnato per anni. Ad esempio la scrittura de Il Vittoriale brucia mi ha accompagnato per più di dieci anni. Quando ero giovane volevo fare il poeta, poi ho pensato che mi avrebbero letto in sei. Alternativamente volevo fare il musicista puro, consacrato al suo violino, e mi avrebbero ascoltato in otto. Tutto ciò resta, ma ad un certo punto ho pensato di trasformare le mie poesie in canzoni, unendo musica e parola: questa è stata la prima vera sintesi, nel mio cuore. E il successo è stato immediato: mi leggevano e mi ascoltavano almeno in dodici! Nel tempo, mi sono in un certo senso “specializzato” in canzoni dedicate a poeti o scrittori: ho scritto e cantato su questo album di Primo Levi, Gabriele d’Annunzio,Eugenio Montale, Jean Flaminien, Claudio Lolli, Ingeborg Bachmann e di tanti altri negli album precedenti. Mi sembra una cosa costruttiva che la mia opera artistica additi opere più alte, che, attraverso di me, ma sarebbe forse meglio dire malgrado me, chi mi legge e mi ascolta possa incontrare qualcosa di più alto di me, di veramente meraviglioso, che può cambiargli la vita.
D. Dai tuoi scritti cantati (chiamarli canzoni mi pare riduttivo…) si può cogliere un’attitudine alla ricerca della parola precisa, sempre tesa a descrivere e definire l’indefinibile. È un caso che, in Fiume circolare, si trovi una citazione a Leopardi?
R. La citazione è per il verso forse più noto di Leopardi: Sempre caro mi fu quest’ermo colle, che viene, amaramente, ribaltata in Sempre caro sarà un altro colle: nella nostra vita ci affezioniamo a luoghi (quasi sempre quelli dove siamo nati; altre volte ci illudiamo di scoprire qualcosa di nuovo), ma l’inganno è nel nostro petto: il nostro cuore amorosamente dipinge paesaggi amati, che riteniamo unici, irripetibili, decisivi. Ma un fiume circolare avvolge tutto, come un serpente, in una spira che soffoca il nostro desiderio di nuovo e i nostri amori. Tutto è uguale, purtroppo, o così sembra. Ma l’arte, la poesia e l’amore urlano altro e si protendono oltre la logica, oltre lo scacco perenne che è la nostra esistenza, verso l’infinito, l’indefinito, l’indefinibile…
D. Il violino, di cui sei maestro, sembra non prevalere, a vantaggio di un arrangiamento più ricco di sfumature (la fisarmonica di Castrini, la chitarra di Capodacqua, il violoncello di Famulari…). È una scelta che ha uno scopo preciso?
R. La vita mi è sempre parsa troppo breve per spenderla a guardarsi allo specchio, per voltolarsi nel porcile del proprio compiacimento. So di saper suonare bene il violino, ma non amo gustarmi, riascoltarmi. Amo incontrare altri suoni, altre presenze, altre persone, che danno alle mie canzoni un altro aspetto, nuovi colori e nuova vita.
D. Apprezzabili, nel ricco libretto, il ricorso a commenti che contestualizzano i brani, ma anche la loro traduzione in inglese. Infatti sei uno dei pochi musicisti autenticamente internazionali; al di là dell’ovvia idea della musica come linguaggio universale, puoi chiarire in che senso pensi che i tuoi canti possano raggiungere la sensibilità di un pubblico non italiano?
R. Ho, da sempre, lavorato molto ai libretti che accompagnano i miei CD. Sono una caratteristica specifica, ormai da tanti anni, dei miei album e non solo dei miei: di tutti quelli che ho pubblicato attraverso la mia etichetta, FonoBisanzio dal 2008 ad oggi. I libretti spiegano e completano la parte musicale. Da sempre c’è una traduzione inglese, a cui hanno lavorato, insieme a me nel tempo, grandi songwriter e artisti con cui ho avuto la fortuna di collaborare; Mark Olson, Eric Andersen, Mary Gauthier, Lori Larue. Tutti hanno lavorato duro con me, per mesi, alle traduzioni. Sono amici veri con cui ho fatto centinaia di concerti al di qua e al di là dell’oceano, che hanno avuto la pazienza di fare con me questo lavoro faticoso e lungo. Con loro ho condiviso affanni e gioie della mia scrittura. Sono infinitamente grato a loro per il lavoro duro che nasce da apprezzamento e condivisione sincera. Loro mi sono grati per non essere stati invitati a fare un’ospitata qualunque cantando o suonando due note come specchietto per le allodole per l’ascoltatore. Fino a prima della pandemia la mia vita è stata divisa tra USA ed Europa, con uno sbilanciamento verso gli USA. Mi è dunque venuto spontaneo rivolgermi anche ad un pubblico non italiano.
FOTO DI ALBERTO MARCHETTI