Paolo Saporiti

interviste

Paolo Saporiti Un incontro lungo e ricco di spunti: Paolo Saporiti, il suo pensiero, le sue visioni, la sua musica

19/01/2025 di Laura Bianchi

#Paolo Saporiti#Italiana#Canzone d`autore

C'è un cantautore che è prima di tutto un ricercatore, un esploratore di suoni e sentimenti, e il suo ultimo disco, "La mia falsa identità", ne è una prova. Lo abbiamo incontrato alla vigilia di un lungo tour, e ne è scaturita un'altrettanto lunga, profonda e coinvolgente confessione a cuore aperto e mente lucida, che stimola molte riflessioni.

Tra poco inizierà un lungo tour per tutta Italia (le date alla fine dell'intervista, ndr), e ti ringrazio per il tempo che mi concedi...innanzitutto, come è iniziato il tuo percorso nel mondo della musica? Ricordi alcune persone più significative per la tua formazione?

È tutto cominciato grazie a mio padre, a mio zio e a mia madre. Il primo ascoltava musica in ogni momento libero della giornata e mi ha insegnato a farlo e a lasciarmi permeare dalle cose che incontro, dalle emozioni. Era schizofrenico e lo faceva come dono naturale, lui, e ne rimaneva invischiato. Io ho dovuto imparare a controllare la cosa per poi poterla usare e gestirla a piacimento. Il secondo - mio zio - mi ha insegnato a mettere le mani sulla tastiera della chitarra, nel tentativo di emettere un suono degno di tal nome. Ho studiato copiando i grandi, nella solitudine della mia cameretta, imparando i brani a orecchio, tanto da riuscire a concedermi, un giorno, di salire su un palco di fronte a un pubblico vero. Mia madre ha sempre canticchiato tra sé e sé e tutto quel bisogno, quella necessità di armonia e di perfezione che ho conosciuto all’epoca, a partire da quando ho avuto l’opportunità di goderne nella sua pancia, sono rimasti alla base di ogni cosa della mia esistenza. Continuo a cercare di riprodurre quello stesso stato di grazia un poco dovunque. È una cosa che ha a che fare coi liquidi, credo, e con gli oggetti e la trasmissione delle onde sonore che si muovono nel mio cervello, nel mio corpo. Tutto risuona se stabilisco di sintonizzarmi. Non per nulla amo ascoltare in cuffia e trovo lì il mio massimo godimento. Lei ascoltava tutto quello che ascoltava mio padre e che amavano ascoltare assieme, in compagnia degli amici. E io ho sempre e soltanto integrato tutto quello che percepivo e l'ho reso mio. A modo mio, come sempre e fin dall’inizio. Sono un figlio putativo degli anni ’60 e le chitarre e le canzoni sono state parte dell’humus di tutta quella generazione. Il cantare cose impegnate era una questione politica spontanea, etica, non un divertimento fine a se stesso. O almeno questo è quello che ho voluto recepire io. Amo fare questa cosa, però: attribuire valore anche laddove non ce n’è e mi sono addestrato a farlo. Il mio scopo non è mai stato distrarmi o occuparmi la mente, mai, ma sviluppare un linguaggio, un metodo sicuro, in grado di sostenere la mia sopravvivenza con la musica, cosa che poi vale per la vita in generale, se è vero che per me la musica è vita.

Quali ricordi musicali hai?

È stata mia madre a regalarmi il mio primo giradischi portatile, a 45 giri, quello della Fischer Price che andava tanto di moda ai tempi, e da lì non ho mai più smesso o passato un solo minuto della mia vita senza un riproduttore di musica al mio fianco e le cuffie relative. Mi addormentavo cullato dalle note della sua voce o dai brani che ho imparato ad ascoltare per prendere sonno. E non ho mai abbandonato questa pratica. Vivo tutt’ora di rituali, mi addormento ancora così. L’azione che ha determinato poi il mio lavoro e tutte le altre scelte successive è stata andare in America a comprare una Martin, accettando la responsabilità di occuparmene a tempo pieno. Il coraggio di un adolescente che nulla aveva a che fare con la musica, in termini professionali famigliari, ma che sentiva una pulsione fortissima per la materia, mentre tutti gli altri remavano contro, affinché mi laureassi e continuassi una delle carriere pronte all’utilizzo e più “giuste” da proporre al mondo: la psicologia o la chimica. Nei fatti sono e rimango un autodidatta e ho imparato tutto quello che so ascoltando i dischi e riproducendo quello che sento. Non conosco la teoria musicale e non ho mai letto un solo spartito o studiato in una scuola, giusto qualche rudimento tecnico appreso da qualche professionista, sparso qua e là e frequentato saltuariamente, ai tempi dell’università di psicologia a Torino. Mi sono alzato per anni con il dubbio perenne: essere o non essere un musicista. E poi ho scoperto il teatro. 

C'è qualcuno che ha maggiormente influenzato il tuo stile musicale? 

Mio zio, ancora una volta, portatore di una visione americana del cantautorato e dell’inglese come lingua di riferimento, e mio padre, con la sua essenza e la sua personalità uniche. Tecnicamente poi tutti quei chitarristi che si sono accompagnati con l’acustica per esprimersi con la voce e l’anima, il corpo. All’inizio volevo soltanto suonare la chitarra come John Fahey, Leo Kottke o John Renbourn, Michel Hedges o Pat Metheny. Poi ho capito che volevo lasciar risuonare anche le mie corde vocali e che dovevo affrontare la mia timidezza. Così ho iniziato a emettere i primi grugniti per poi replicare le canzoni altrui, perché avevo bisogno di dire delle cose, ma non sapendo ancora che cosa dire di preciso. Quindi ho avuto bisogno di esempi (Nick Drake, John Martyn, Bruce Cockburn, James Taylor, Jackson Browne, CSN&Y, Joni Mitchell, Tom Waits, Van Morrison) e lentamente ho cominciato a prendere fiducia e ho cercato il modo per alzare il tono della voce, per riuscire a farmi sentire e poi a farmi ascoltare. Così sono arrivate le prime cover suonate - ma solo per parti dei brani interessati, mai eseguiti nella loro interezza e struttura, perché la cosa spesso mi annoia - e i miei primi brani in italiano.

Ci racconti i tuoi primi tentativi creativi?

La prima cassetta di canzoni l’ho incisa per riconquistare una delle mie prime fidanzate, forse la più importante dell’epoca, che non ha minimamente apprezzato il gesto, anzi... mi ha trattato come un deficiente: “Pensi sul serio che questo possa cambiare le cose?” mi disse, già abbondantemente stufa di me. E io risposi di sì. Perché ci credevo davvero. Persa la donna, guadagnata la musica, e un modo sicuro per trasformare i miei stati dell’essere, tra cui la sofferenza. Così iniziai a scrivere in inglese, per esprimere quello che avevo dentro. Dopo molti anni lei mi telefonò e, con mia grande sorpresa e gioia, disse che mi voleva restituire il cimelio, che ora conservo tra le cose più preziose del passato. E così è andata: con quella stessa cassetta mi presentai in negozio da Carù, in piazza a Gallarate, e gliela consegnai. Dopo qualche tempo, Paolo mi disse: “ci sono degli embrioni di qualcosa di buono, continua così!...”. Molti Paoli, troppi Paoli e troppo importanti, in questa fase della vita, che ci stanno salutando...Volevo già loro molto bene, poi è avvenuto tutto il resto e... 

Siamo tutti addolorati per la morte di Carù, di Benvegnù, di Milanesi...ma vorrei chiederti: come nasce una tua canzone? da dove parti di solito? 

Parto sempre dalla chitarra e da quello che ne scaturisce naturalmente, a seguito di un’emozione che di sicuro ho provato, ma che non ho ancora riconosciuto, fino a quando non ho ho iniziato a suonarla e a scriverne. Lascio che parta il processo. Un poco come affidarsi a un oracolo. Scopro quello che ho da dire nel consultarlo. Lascio che prenda una forma indipendente da me, se non per gusto estetico, e che mi porta verso qualcosa di bello che so che porterà da un’altra parte ancora. Di solito è un giro quantomeno onirico, quello che esce, che mi permette di trascendere e dimenticarmi di me stesso velocemente. Da lì improvviso con la voce e faccio altrettanto con le parole. Lentamente lascio che accadano e succedano delle cose. Ripeto, ripeto e ripeto e poi ancora ripeto, taglio, smusso, cambio e sostituisco, fino a quando il processo non si è ultimato da solo. A volte dura cinque minuti, a volte sei mesi, a volte sei anni, dipende. Irrompe, a un certo punto, un segnale che mi dice chiaro e tondo che va bene così e che posso smetterla, di lasciar andare. Fino a quando poi il processo non ricomincia da capo con i live. Il senso del mio lavoro non è mai univoco, per di più. Una delle ragioni per cui non piaccio a tante persone credo sia proprio questo. Lascio molte strade aperte, anche quando ho finito, e chiedo tanto a chi ascolta. Ma mi piace lasciare che delle cose continuino a succedere anche nella vita di tutti i giorni. Una cosa che fa comunque parte del processo evolutivo e che vale tanto per me: eseguo e mi dimentico, come metodo, per poi rimpossessarmi in maniera differente e non stancarmi mai di quello che ho davanti. Qualcosa passa attraverso di me, mi modifica, come un flusso che arriva agli altri e che mi torna indietro modificato una seconda volta, poi io lo ricanto e lo scopro di nuovo con significati che mi erano ancora rimasti celati. Per questo ritengo molto importante il valore del riconoscimento reciproco e della ricerca/presenza di un interlocutore. Serve a tutti, a me e a chi ascolta. Avere un pubblico è fondamentale e necessario per continuare a crescere, immaginarlo o coltivarne uno interiore. Suonare non è mai una cosa fatta da un singolo individuo, per un se stesso, anche se lo può spesso sembrare. È una questione ancestrale di comunicazione e avere un uditorio, tra l’altro, professionalmente salvaguarda dall’auto-indulgenza, uno dei pericoli più grossi per tutti quelli che si impegnano in questo lavoro. 

La tua musica è molto profonda. Come gestisci l'esposizione emotiva che comporta? 

Ho imparato a farlo, ma non è mai stato troppo facile e non lo è tutt’ora. È molto stressante e ci vuole un metodo che si forma e che si consolida negli anni, all’infinito. Non si smette mai di imparare. Qualche tempo fa, in un locale, stavo buttando giù l’ultimo sorso di sambuca, prima di salire sul palco, e il proprietario mi ha detto: “diavolo, anche dopo tutti questi anni hai bisogno di bere...” Beh credo che la gente non abbia la benché minima idea di tutto quello che serve, del livello di esposizione a cui ci si sottopone, della fatica gioiosa, ma pur sempre fatica emotiva, che si fa. Oggi ancora più di prima, visto che viviamo nell’indifferenza più totale da parte di tutti e che dobbiamo gestire ogni aspetto da soli, tanto da farti sembrare tutto del tutto inutile. Nel momento in cui poi - al mio lavoro - vai ad aggiungere un aspetto teatrale di un monologo come quello di Amleto o di Mozart e Salieri, di Beckett o di un pezzo originale che sia, come ho fatto e come faccio, la cosa diventa ancora più impegnativa, perché parte dal profondo di te e ogni volta devi andare a scaldare e scandagliare anche la più piccola parte più nascosta. È una questione di un’intimità e di una responsabilità tali da risultare incommensurabili ai più, lo capisco bene. Il rapporto però è con quel qualcosa di invisibile che nutre tutto ciò di cui è fatto il nostro lavoro, che è magico e insondabile in generale, me ne rendo conto, perché viene evitato e non è nemmeno troppo discutibile neanche da noi stessi che lo mettiamo in pratica. Va vissuto ed esperito, accettato e lasciato essere e basta. E, ripeto, segue un suo percorso di maturazione. Stop.

Trovi che ci sia un contatto tra la creatività e la disciplina?

A volte, come per gli sciamani, il processo passa anche attraverso una sostanza altra da noi. Ma questo non esclude mai il lavoro fatto e il lavorio interiore continuo, a cui ci si deve sottoporre quotidianamente, per essere pronti a spalancare le porte nel momento esatto in cui l’altro che ci abita si presenta e ci permette di performare al massimo del nostro potenziale. Come per gli atleti, vale una sorta di trance agonistica, di possessione che va preparata e facilitata. Solo che qui non c’è una competizione o non dovrebbe esserci, se non nei confronti di noi stessi e dei nostri limiti. Nello sport, ci sono delle regole che vanno rispettate, le linee del campo, la porta. Per l’arte è lo stesso: il palco, il setting, il pubblico, ma questo è il vero regno della libertà e dell’essere se stessi, aspetti che vanno affrontati come tali con tutti i propri pregi e soprattutto con tutti i propri difetti che ritengo essere il vero plus di tutto l’ingranaggio creativo. Per questo niente scuole per me, in musica, perché gli insegnanti possono essere pericolosi e vanno scelti con una cura infinita. Gli inciampi, i difetti di tutto quello che siamo, non vanno corretti. Essi raccontano meglio di noi stessi le nostre verità e le nostre storie che ci rendono così unici e veri. È di questo che si nutre l’Arte, di verità. I difetti non vanno curati, ma facilitati, aiutati a esprimersi e a venire fuori, sempre più cristallini ed essenziali, ma non cambiati o ammutoliti. Il rischio che si corre è enorme. C’è una sottile ma enorme differenza tra curare e imparare a esprimere. E questo è quello che serve. Per questo ho dismesso e rifiutato l’abito (la ‘laurea’) da psicoanalista. 

C’è qualcosa che avresti voluto sapere all’inizio del tuo percorso e che oggi ritieni fondamentale? 

Direi di no, salvo il fatto che potesse essere tanto difficile sostenere questa causa e restarsene a galla. Anche se potrei descriverti come e quanto questo mondo sia andato a rotoli o stia letteralmente andando a rotoli, sotto gli occhi indifferenti o conniventi di tanti, se non tutti, gli addetti e non solo...Il bello è che rimane sempre la scoperta. Il disvelarsi delle cose. E questo rimane per sempre, ma ci vuole tempo. È un processo infinito. Purtroppo, oggi, come in tanti altri ambiti, non c’è più tempo per aspettare, soprattutto in chi produce e nella gente comune, nelle persone. Non c’è nessuno o quasi nessuno che voglia credere nel processo, nella ricerca e nel lavoro di ricerca, nella comprensione e nello studio, nella necessità di farsi una cultura per poter capire davvero e avere accesso a quello che ci capita davanti. Devono avere tutti e tutto pronto e subito, facile da digerire e col minimo sforzo. Per questo funziona così tanto il rap che è così monocorde, monotono e ripetitivo, anche nelle immagini stereotipate. Con l’arte questo però non può funzionare, bisogna sapere e volere affrontare l’ignoto, ogni volta, e accettare che vinca un mondo di possibilità. Amare la diversità, andare a cercarsela, abitarla. Soltanto il ripetere all’infinito - anche nell’ascolto - porta alla scoperta della perfezione del gesto dell’arte e della comprensione. Magari fai la stessa cosa per anni e ti fa cagare, o leggi un libro per la decima volta e ancora non lo capisci. Ma un giorno ti svegli e tutto funziona, tutto va al suo posto, di colpo. Stavi affrontando un capolavoro? È un caso? No! Non era tempo, prima. Ed è soltanto il frutto della tua perseveranza, della tua dedizione e della tua passione che ti hanno tenuto in piedi ogni giorno e che ti hanno tenuto inevitabilmente legato al fuoco che hai dentro e che hai avuto la forza di ascoltare e tenere vivo. È una questione esistenziale e di fiducia nel processo dell’Arte, in quanto tale, e nell’Essere Umano. Anche per questa ragione, questo gioco prevede la condivisione. Da soli, eseguire o seguire tutta la filiera, è praticamente impossibile. E anche il pubblico, da interno, deve necessariamente diventare esterno, identificabile. 

Qual è stato il punto di partenza per "La mia falsa identità"?

Il titolo mi è apparso chiaro e manifesto fin dall’inizio, alla fine di una giornata di lavoro. Sapevo che era giusto, ma soltanto per illuminazione. Due capitoli interi, a fare da vasi comunicanti. Venti brani. Senza saperne quasi nulla dal punto di vista razionale, ma avevo lavorato per mesi sulle canzoni, quindi ero già nel pieno del processo... mi sono dimenticato per giorni, mesi delle ragioni alla base, perché non ne avevo più davanti ai miei occhi. Lavorandoci su, ho capito e riscoperto il perché, nei mesi finali, e ne ho definito gli aspetti per comunicarli agli altri, ma il tutto sgorga da una fonte che bagna la pianta ogni giorno di un pezzettino in più, di un dettaglio che potrebbe sembrare futile, ma non lo è. Credo molto, si sarà ormai capito, nell’idea di un lento disvelarsi delle cose, del togliersi di un velo che lascia scaturire tutto quello che già stava sotto; lo svelarsi di tutto quello che era presente, ma ben nascosto e latente. E so per certo che non tutto dipende da noi. Bisogna accettarlo e rendersene conto, se no si continua a sbattere contro un muro e ci si fa del male. 

Perché hai scelto quel titolo? C’è un messaggio specifico? 

Sono convinto che questa società sbagli in tante direzioni. Il culto dell’identità è una di queste. Il modo in cui la si vive e la si percepisce. L’identità non è una cosa unica e univoca; è multipla e molteplice. Eterea. E va lasciata libera d’essere. Il processo di crescita definisce i limiti e i confini, e scende verso il basso e l’inferno, ma non dobbiamo avere paura di lasciare libero d’essere il nostro essere leggeri, la qual cosa prevede anche degli errori, ma non è questa la discriminate. Il concetto è permettersi di abitare in un mondo di possibilità, dialogando con la paura e con tutti gli altri sentimenti. L’idea di identità è servita a differenziare e separare molto spesso, nella storia, come continua a farlo oggi nel quotidiano. Stabilire dei confini che ci lascino l’illusione di poter controllare tutto e ogni cosa. Ma così non è e non può essere; è una rincorsa continua nei confronti di un disequilibrio, dominato dall’equilibrio che spesso non siamo in grado di cogliere e di riconoscere. Credo che tutti ormai possiamo convenire sul fatto che senza confini vivremmo molto meglio e in pace, insieme, se ne fossimo davvero capaci. Ma servono delle regole e bisogna conviverci. È un lungo percorso, quello dell’umanità verso se stessa. Certo è tutto utopico, ma non si deve vivere nell’utopia. L’utopia, come il sogno, serve per puntare a qualcosa di grande e di non tangibile, non per abitarla tout court. Come la democrazia, che non è una cosa reale, ma è un’idea. La società deve puntare a essa inequivocabilmente, a volte anche accettando di vedersela negata, senza condizioni e magari da un dittatore, ma poi se ne tirano le somme e si evolve, si risolve, sempre a posteriori. L’umanità, l’essere esseri umani sempre e di più e nel migliore dei modi possibili, anche se qualcosa non ci sembra intelligibile al momento: questa è l’aspirazione o l’ispirazione. 

Il primo capitolo si concentra sul tema dello sfratto e delle radici. Quale ricerca c’è stata dietro questa scelta? 

La guerra, la battaglia per sopravvivere ogni giorno. Il lavoro di una vita. Sono anni che mi dedico alla ricerca di me stesso e alla comprensione dei confini, dei limiti, dei perché siamo quello che siamo e sono sempre più convinto del fatto che siamo figli dei nostri genitori, sì, ma non solo: siamo espressione del nostro tempo e del nostro albero genealogico, della società e di tutto quello che riverbera e che ci portiamo da secoli, e che conduce o lascia in noi, in eredità, compiti, doveri, richieste, aspirazioni. Soprattutto per gli artisti che fanno da ricettori e da antenne di tutto quello che passa per l’aria o che dovrebbero ricordarsi di farlo, da sempre; anche se questo ruolo oggi lo hanno perso o è stato loro rubato. Bisogna soltanto avere il coraggio di continuare ad ascoltare il passato, in rapporto al presente e cercare di viverlo, lasciandosene permeare e lasciarlo essere, per poi continuare a trasformarlo e lasciare una traccia a chi viene dopo di noi, libera. Questo ci porta alla pienezza di un’esistenza. Più liberi siamo nel processo e nel lasciarci guidare da tutto quello che succede, senza contrastarlo, più andiamo a fondo alla nostra ricchezza e troviamo soluzioni libere. 

Il riferimento al dolce tipico di Pitigliano e alla storia ebraica come si collega al resto dell’album? 

Sono tutti simboli di cui mi occupo da anni e metafore dell’arte e della visione che ho nella testa da tempo. In questo caso, parlo di un lungo viaggio fatto in Toscana, scoprire che, anche di fronte alla peggiore delle disgrazie, la ghettizzazione e l’espatrio forzato, un gruppo di persone - gli ebrei, nel Medioevo, nella fattispecie - sia stato in grado di intervenire sulla realtà, inventandosi un dolce, in un forno del paese, per poter elaborare il lutto e trasformare creativamente il proprio vissuto. L’uomo è fatto di azioni e della capacità di restituire forma alla materia ed è fatto per esprimere tutto quello che prova e che ha dentro. Se non lo fa, muore e questo è valido anche per le nostre cellule, che si fagocitano o iniziano a rigenerarsi in termini anche controproducenti per la nostra vita stessa. C’è poi, in me, questa fascinazione per la cultura ebraica in generale che fa sì che mi si attivi un’identificazione per chi spesso gioca, contro i propri desideri e interessi ovviamente, il ruolo del capro espiatorio. La figura del reietto, del matto, dell’esiliato e dell’abusato, del diverso e del non capito, che poi spesso sono paragonabili a quella dell’artista, nella società, che mi coinvolge e mi costringe allo studio e a una ricerca costante, verso la comprensione. Non mi interessa la politica o la questione tecnica, quando diventa faziosa. Mi interessa l’uomo che se ne sta alla base e che magari ne fa anche di politica e del tifo ma...Mi interessano le storie. 

Il secondo capitolo prende ispirazione dal dipinto "La zattera della Medusa". Cosa ti ha spinto a intrecciare il naufragio e la sopravvivenza nella tua musica? 

La speranza e la conoscenza. I nostri limiti. La luce che si intravede laggiù, in quell’angolo del quadro, nella tempesta o dopo il naufragio, ma soprattutto dell’umano che traspare di fronte agli atti di cannibalismo e di selezione violenta ed estrema, nel nome della salvezza personale, occorsi sulla zattera tra un essere umano e l’altro. Il pittore, il poeta - come me, in questo frangente - continua a cogliere soltanto l’essere umano, nel bene e nel male, nella sua essenza, per quello che è, vero e senza paura di offendere qualcuno o qualcosa, anzi... va a fondo con il tutto, identificandosi. 

Credi che questa struttura possa aiutare l’ascoltatore a vivere l’album come un viaggio narrativo? 

Credo proprio di sì, lo spero, sono tutte metafore e chiavi di lettura e credo che tutto vada nella stessa direzione. Ho fatto di ogni cosa una questione d’istinto, come faccio sempre, anche quando scendo dal letto. Ormai mi fido di me stesso e di chi mi circondo e mi affido, dopo averci lavorato su per anni. Ho imparato a farlo. Ora vivo di disciplina, per conservare uno stato, e soltanto abitando la disciplina ho capito che si può improvvisare davvero. Il resto è vivere o fare a caso o lasciarsi vivere. Il palco è la quinta essenza di tutto questo. Dobbiamo essere pronti e lucidi. La vita è fatta di scelte. Questo non vuol dire non abbandonarsi mai alle cose per quello che sono, anzi. Non è mancanza di libertà, ma il suo esatto contrario. Bisogna arrivare alla sicurezza di potersi abbandonare all’ignoto, al fatto che veniamo e siamo sempre scelti. La vita è fatta di decisioni, ma non siamo noi a prenderle davvero o a scegliere quali e quante cose ci devono succedere. La nostra unica possibilità risiede nel farci trovare lì pronti e aperti alla caducità del momento. Ho davanti due porte e mi fermo, ascolto dove va e dove mi porta l’invisibile, il cuore, quello che mi muove e batte da dentro e vado, sicuro di non poter avere nulla poi di cui pentirmi o recriminare. Bisogna soltanto allenarsi e tenere caldi i riflessi. 

Per la produzione di questo album, hai esplorato nuove sonorità o tecniche? 

Abbiamo concertato più o meno tutto fin dal principio, con Raffaele Abbate, amico e produttore, anche in questo caso. Siamo due istintivi, ma lui - nel ruolo di regista che gli ho richiesto - avrebbe dovuto vedere più di me, dall’esterno, per tutto il tempo necessario. E così abbiamo fatto e la cosa mi ha permesso di gestire un fiume in piena che ha lasciato anche dei cadaveri lungo il percorso, e non è stato facile, anzi...Bisogna imparare a delegare parti del lavoro e di se stessi. Affidarsi, per poi recuperare il tutto e riportarlo alla propria visione iniziale. Questo ho capito e in questo ci siamo rodati negli anni, ma soprattutto con questo disco. È una squadra che lavora, sempre. Per questo servono le strutture, le regole e una disciplina. Un campo di gioco con delle linee chiare e disegnate. Finché corri per un campo di patate, a caso e senza una meta o senza una porta verso la quale tirare, non giochi a calcio, ti alleni per arrivare a fare quello un giorno magari, ma non lo stai ancora facendo. E invece, per la prima volta, come ha notato un amico caro e comune che non c’è più: siamo riusciti a gestire la squadra e il progetto e a essere lì in tanti e a chiudere la partita. Miracoloso. E questo non è stato soltanto un ennesimo tentativo di avvicinamento a qualcosa, alla realizzazione di un’opera vera, come è valso per tanti altri lavori miei o suoi precedenti, ma lo è stato concretamente e di questo vado fiero. Che uno più bravo e più grande di me, poi, abbia avuto la forza o il coraggio di dirmelo e farmelo notare di persona - il tuo lavoro vale ed è superiore, anche se in tanti non lo capiranno - è fonte immensa di orgoglio e di consapevolezza, un dono per cui non smetterò mai di ringraziare il diretto interessato. 

Quale brano dell’album senti più vicino al tuo vissuto? 

Grandi verità. Parlo specificamente del vissuto relativo al metodo usato per realizzare questo progetto. Il brano è partito in un modo che ha preso una piega dettata soltanto dalla fiducia, già confermata, ma che a un certo punto è sbocciata ed è esplosa totalmente tra me e Raffaele Abbate, riverberandosi su tutto il resto del materiale. Avevamo in mano tutta quella mole di lavoro già chiusa e ci siamo detti: regaliamoci ancora qualcosa. E così è stato ed è iniziato un processo di post-produzione che ha fatto spiccare il volo al disco intero. Gli elementi erano chiari: la mia chitarra, gli archi, la scrittura per gli archi di Stefano Cabrera, il trio di “Acini live” e la sua energia, la mia voce e ci abbiamo aggiunto tutte le sezioni di sintesi e di arrangiamento che hanno reso il disco unico, almeno ai miei occhi. “L’autobomba” o "Falce Nera” sono due brani in cui ha vinto ancora una volta il processo, dovevano essere scartate a un certo punto e solo la perseveranza e la fiducia nel processo ci hanno portati a vederle impennare e a chiuderle meglio di come erano sempre state immaginate. 

Quali sono i tuoi prossimi progetti? Continuerai a esplorare queste tematiche o cambierai direzione? 

Sto già lavorando al prossimo disco. Il titolo mi risuona già nella testa, ben chiaro. Ma voglio partire da quello che ho ritrovato in questi ultimi mesi, tra cui il lavoro con Xabier Iriondo dal vivo. Vorrei partire da lì, da quel tipo di live, e lasciar gravitare in studio con lui e con Cristiano Calcagnile il progetto che vorrei potesse prendere pieghe inusitate e inaspettate. Staremo a vedere. Ho già per le mani alcune canzoni, che ascolterai dal vivo in parte, in solo, tra qualche giorno e vedremo dove andremo a finire. 

Che sensazione provi quando sali sul palco? Che rapporto hai coi musicisti che ti accompagnano? 

Dipende. Ora come ora ho passato quasi un anno da solo e sono stato benissimo e vorrei continuare così, aprendo soltanto a collaborazioni sicure e ben collaudate, ben rodate. La responsabilità della condivisione è forte e tale che deve scivolare via tutto bene, al meglio. Bisogna soltanto potersi guardarsi in faccia con onestà e iniziare a suonare. È già così complesso poter portare avanti tutta questa cosa che i collaboratori devono essere una ciliegina sulla torta e la torta deve piacere a tutti e allo stesso modo, in ogni singolo aspetto o componente e a ogni boccone. Se vige il malcontento, anche in un solo dettaglio, non è cosa da perseguire o da farsi. Ho capito. Se non ti va bene qualcosa di quello che ho da dire o di come lo faccio, non va bene. Ho tutto un rituale, ora come ora, un percorso che faccio regolarmente prima di salire sul palco, ogni volta, in preda al panico o alle emozioni che siano, che sono comunque pronto a rigirare in tutto quello che faccio istantaneamente. Lavoro per giorni, in attesa spasmodica di quel momento. Mi alzo presto la mattina, mi concentro, mi rilasso e faccio esercizi tutto il giorno, mi stimolo in ogni modo possibile, per poter salire sul palco e dimenticarmi di me stesso ed essere, finalmente. 


Ecco le date del tour:

25 gennaio Bertinoro,Circolo ENDAS Rimbomba

31 gennaio Black Inside, Lonate Ceppino

6 febbraio Benevento, Kindergarten

7 febbraio house concert a Melito

8 febbraio Scafati, Spazio 51

14 febbraio Roma, Antica Stamperia Rubattino

15 febbraio L’Aquila, Polarville (tbc)

28 febbraio spazio Pontano, Milano

14 marzo tbc

15 marzo Officina 19, Pieve di Sacco (PD) in duo con Xabier Iriondo

21 marzo Milano Fabbrica dell’esperienza in duo con Xabier Iriondo

22 marzo Pescara Futuro Imperfetto in duo con Xabier Iriondo

16 maggio Castello d’Aquino - caffè letterario, Grottaminarda (AV) in duo con Xabier Iriondo