Folco Orselli

interviste

Folco Orselli Milano e Folco Orselli, un amore blues

17/03/2025 di Laura Bianchi

#Folco Orselli #Italiana#Canzone d`autore

Per la serie "Le persone dietro e dentro la musica", incontriamo Folco Orselli, un cantautore profondamente radicato nella città in cui vive, Milano. A tal punto da creare un progetto in cui la città si apre alle sue periferie e ai giovani musicisti che le abitano: “Blues in Mi: quartieri identità di Milano”. Lo abbiamo incontrato per una lunga chiacchierata.

D. La tua carriera musicale è iniziata negli anni ’90: cosa è cambiato nel tuo modo di fare musica da allora?

R. Quasi nulla. Mi sono sempre ispirato al blues e alle sue derivazioni e anche oggi faccio così. Ho ripulito un po’ la voce, Tom Waits mi ha per un periodo posseduto tipo Linda Blair nell’Esorcista. Poi abbiamo divorziato, ma non mi passa gli alimenti.

D. Il blues è al centro della tua espressione artistica. Cosa rappresenta per te questo genere?

R. Lo vedo come un esperanto, un linguaggio che coinvolge i sensi in più modi. Lo ascrivo più al campo dei sentimenti che al “genere musicale”, e poi è un modo di essere, di pensare. È anche una fratellanza mondiale, ti fa sentire parte di una famiglia. Poi io lo declino, lo applico ad altri generi. Non sono un purista, mi piace metterlo in relazione al teatro, al modo teatrale di raccontare i testi, oppure al rock o alle ballate. È come l’olio buono, rende più buoni tutti i piatti che cucini.

D. Se dovessi consigliare un tuo album a chi non ti ha mai ascoltato, quale sceglieresti e perché? E ci sono lavori tuoi in vista?

R. Forse Outside is my side, il mio penultimo album. È un po’ un compendio di quello che faccio. C’è il blues, il funk, il prog, le ballate e anche il punk! Prossimamente, una volta chiuso il nuovo capitolo di Blues in Mi: quartieri identità di Milano, il mio lavoro docufilmico sulle periferie e i giovani che ci vivono, mi dedicherò temporaneamente al volume 2 di Blues in Mi, il disco, che uscirà nel ‘26.

D. A proposito...com’è nato il progetto “Blues in Mi: quartieri identità di Milano” e qual è la sua missione?

R. Avevo il desiderio di darmi del “noi”, di dedicarmi a un lavoro che mi portasse oltre la sguardo dell’”io”. Ho scelto di lavorare con i giovani artisti che vivono in quartieri di periferia. Mi piace l’idea di essermi imbarcato in un viaggio di cui non conosco né la meta, né cosa succederà durante il percorso. Penso che vada mostrata una via ai ragazzi e alle ragazze che vivono nelle periferie (ma non solo) della città. Attraverso l’esempio dei giovani artisti vogliamo spingere ragazzi/e che non hanno ancora trovato una via per la loro vita, a cercarsi, come fanno gli artisti, che sono “costretti” a migliorarsi, ad alimentare, attraverso l’impegno, il dono che hanno ricevuto. Trova la tua passione e non lavorerai un giorno nella tua vita. Un vecchio motto sempre valido. 

D. Hai notato un cambiamento nel tessuto sociale delle zone in cui porti la musica?

R. Il nostro è un percorso lungo e difficile, i risultati attesi si vedranno sul medio periodo. Abbiamo pensato di avvicinarli, di coinvolgerli, attraverso una serie di docufilm che li riguardano, che mostrano come insieme si possano annullare le differenze di genere, di cultura, di quartieri. Mi piace dare voce a loro, sentire cosa hanno da dire su temi importanti come l’integrazione, la felicità, il futuro. Interpelliamo spesso sociologi, psicologi, personaggi pubblici sui temi che riguardano i ragazzi, quasi mai loro. 

Portiamo i nostri film nelle scuole e nelle università, e ogni volta che lo facciamo succede qualcosa. I ragazzi e le ragazze hanno un dannato bisogno di essere ascoltati, e così facendo si capisce che la narrazione che va per la maggiore, quella di una generazione nichilista, senza spinte ideali, è davvero frutto di un pregiudizio, nel migliore dei casi, e nel peggiore nasconde il desiderio di sentirsi parte di una storia che non si potrà più ripetere. 

D. Quali sono i momenti più emozionanti che hai vissuto grazie a questo progetto?

R. Sicuramente l’approccio con i ragazzi, il vedere come piano piano comincino, durante le fasi di produzione, a fidarsi di noi. Sono abituati a un’interlocuzione generalmente paternalistica; io mi rivolgo a loro da collega, da artista, e così facendo le differenze di età si annullano, si sentono liberi di essere quello che sono, quello per cui lottano. Anch’io ricordo di non essere stato ascoltato nel profondo quando avevo la loro età, e mettersi a loro disposizione, costruendo qualcosa per loro che ne sono protagonisti, mi restituisce un senso profondo di comunione, di gratitudine e anche di realizzazione.

D. Secondo te, la musica può essere uno strumento di rigenerazione urbana? Hai esempi concreti di questo impatto?

R. La musica, le arti, hanno un potere penetrativo enorme. Dobbiamo credere in un neo umanesimo che ci apra gli occhi e i cuori a un futuro guidato dalle caratteristiche più profonde e positive dell’animo umano, quelle legate all’amore e all’ascolto dell’altro. Nel nostro profondo nuotano insieme ombre e luci, guerra e pace, yin e yang; più che rigenerazione urbana intendo rigenerazione umana, il resto segue a ruota. Se ognuno si occupasse davvero di quello che gli gira intorno, se ognuno di noi mettesse un piccolo pezzetto del proprio tempo e cuore a disposizione degli altri, sono sicuro che questo mondo sarebbe molto migliore. Qualcuno pensa che sia svuotare il mare con il cucchiaino. No, è riempire la nostra vita di senso e di amore e di conseguenza di felicità. 

D. Quali quartieri di Milano sono stati coinvolti finora e quali sono le reazioni degli abitanti?

R. Per il primo episodio abbiamo “esplorato” il Giambellino, Baggio, San Siro. Il prossimo episodio coinvolgerà 14 quartieri diversi, da Affori a Turro, da Farini al Gratosoglio, Lambrate e Maciachini e altri. Il nostro percorso si muove su due binari, i docu-film e gli eventi sui territori. Quando andiamo nei piccoli festival di cinema all’aperto o nelle manifestazioni culturali nei quartieri, nelle associazioni, nelle scuole, nelle università, realizziamo quelle che noi chiamiamo proiezioni show. Gli abitanti dei quartieri intervengono sempre con entusiasmo, sono felici di sapere che ci sia qualcuno che si occupa di loro, del loro mondo, che è un mondo che descrive la nostra identità. Se vuoi sapere chi siamo oggi noi milanesi, entra in un bar di Turro o di Baggio una domenica a mezzogiorno, ascolta i discorsi della gente, troverai la nostra identità aggiornata. Bella? Brutta? Prima ascolta e poi valuta. 

D. Hai incontrato difficoltà nel proporre un progetto musicale in contesti periferici?

R. Direi di no, le difficoltà appartengono all’immane lavoro che c’è dietro un progetto del genere. Trovare i fondi, stabilire le “alleanze” con chi dovrà poi amplificare il lavoro svolto, i media partners, marketing manager delle aziende da convincere, fondazioni, bandi e ancora persone sbagliate che ti fanno perder tempo, tre passi avanti e due indietro e poi tre avanti, assessori, sindaco (sì, sono andato da Sala, doveva per forza importargli), case di produzione che cambiano, pensieri, preoccupazioni. Ma ne vale la pena, perché sento di non muovermi per me, sento che dietro ci sono i sogni dei ragazzi, le loro energie mi aiutano ad andare oltre le difficoltà. 

D. Ci sono artisti locali che hai scoperto grazie a BLUES IN MI e che meritano più visibilità?

R. Ci sono ragazzi pieni di talento come ci son sempre stati. Le periferie ospitano artisti che si stanno cercando, che lottano per emergere. I prezzi degli affitti sono altissimi ma la loro passione li spinge a fare lavori temporanei, con l’idea di farcela e di abbandonarli per inseguire il loro sogno, un’epica antica e commovente. Ho incontrato Islam Malis, rapper eccezionale, protagonista del nostro primo film, che ha un fratello, Ahmed, che ha un talento pazzesco pittorico iper-realista, ha rifatto la Gioconda in modo impressionante; ho incontrato Jay Dee che vende appartamenti per una immobiliare e ha un talento incredibile nell’ improvvisare barre rap su qualsiasi argomento; Lokita, una ragazza che canta e scrive Trap, in cui ho scovato un’anima Soul notevole. Ora sono nel mondo della danza e degli sport di periferia. Abbiamo già un cast di artisti e sportivi che saranno i protagonisti del nostro nuovo film che produrremo a settembre: “Green River Blues Dancing Sport”

D. Vedi la possibilità di esportare questo format anche in altre città italiane?

R. Perche no. Non solo in città italiane; anche a Parigi, Madrid, Londra, Budapest ecc. Mi piace pensare che un artista locale si prenda la briga di esplorare, attraverso il blues, le arti e i giovani, le periferie della sua città. Se ne sta parlando con delle agenzie europee. Vediamo.

D. Qual è, secondo te, il ruolo del rap nel dare voce alle esperienze dei giovani che vivono nei quartieri periferici? Pensi che il rap possa rafforzare l’identità culturale locale e favorire un dialogo tra le generazioni?

R. Io amo il rap degli 80/90, Beasty Boys, Pubblic Enemy su tutti; sinceramente la trap di oggi mi dice poco, non ci trovo musicalità e poetica. Ma sono i miei gusti e valgono zero in questo viaggio. Sto cercando di mettere a disposizione il mio sentire, il mio bagaglio culturale e artistico; sto cercando di smascherare i miei pregiudizi e in parte ci sto riuscendo. Come sempre esiste c’è chi ha da dire qualcosa e chi imita. Ho imparato che nella poetica del rap esiste il “real”, ovvero barre che raccontano veramente la vita di chi le canta, l’amore e le trame più classiche che possono avvicinare il genere al cantautorato; e poi c’è il “crime”, che è il linguaggio che solleva tante polemiche, che racconta di droga, armi, sessismo. Ho capito che per i trapper questa forma non corrisponde veramente al loro essere, è una posa, uno stilema che ha queste caratteristiche; nessuno o quasi si sognerebbe mai di mettere in atto quello che dicono in quelle barre, è gran parte finzione, “letteratura”. Poi, qualche mezzo delinquente che combina casini naturalmente c’è.

D. Vedi possibili punti di contatto tra il rap e altri generi radicati nel tessuto urbano, come il blues?

R. Il Blues è il nonno che ha partorito il funk che a sua volta a dato vita al rap e poi alla trap. Il rap nasce nei block di Los Angeles quando gli MD campionavano gli intro basso e batteria di James Brown. C’è una assoluta filogenia tra questi generi, ed è per questo che mi faccio guidare dal blues per andare incontro ai ragazzi. Siamo in fondo una grande famiglia e io sto cercando di spiegarglielo.

D. Quali progetti ritieni necessari per valorizzare il potenziale creativo dei giovani e migliorare la loro integrazione nel panorama culturale cittadino?

R. Una delle richieste che maggiormente sento venire dai ragazzi è che si creino più luoghi di incontro, dove ci si possa scambiare esperienze, che accolgano le idee e le potenzialità dei ragazzi e delle ragazze, in cui le generazioni possano parlarsi, confrontarsi, senza paternalismi ma con vero interesse a capirsi. Centri di aggregazione dove si possa fare musica, danza, sport, arte. Una volta c’erano i centri sociali dove si veniva a contatto con esperienze di ragazzi più grandi che potevano stimolare il pensiero e l’azione. A me è successo così. Oggi si sentono abbandonati, non compresi, non ascoltati. 

D. Quali sono i tuoi sogni o progetti futuri per BLUES IN MI?

R. Sono determinato a portare a termine questo viaggio. Questo è il mio sogno ora. E lo voglio realizzare, anzi, lo sto realizzando. “Blues in Mi: quartieri identità di Milano” mi sta dando tanto, mi ha fatto crescere, di nuovo. Mi sta facendo capire che la felicità non esiste senza condivisone e che mettere la propria esperienza al servizio di qualcun altro è davvero qualcosa di simile alla realizzazione, al successo. Non mi è mai importato molto del successo fine a se stesso; mi è sempre importato di più di quello che si riesce a far succedere. E poi siamo in missione per conto di S.Ambrogio...(ride)

Ecco i link YouTube ai due episodi:

Il primo episodioBlues contest: hip hop, rap, trap la musica dei quartieri”

Il secondo episodioGreen River Blues Dancing Sport- il cast”

NELLE FOTO: ERNIA, LOKITA, ISLAM MALIS, JAY DEE. Foto di Lorenzo De Simone e Roberto Longoni.