Cristiano Godano

interviste

Cristiano Godano Taumaturgia della gentilezza (e della chitarra acustica)

16/11/2020 di Giuseppe Ciotta

#Cristiano Godano#Italiana#Canzone d`autore

Raggiungo Cristiano telefonicamente, il cantante è in viaggio. Ha appena concluso un acclamato tour in solitaria - voce e chitarra - per "Mi ero perso il cuore", suo primo disco solista. Paesaggi acustici anni Settanta e la forza elegante di parole empatiche e consolatorie, sussurrate come per poggiarle sulla spalla di un amico.
Ringrazio il frontman dei Marlene Kuntz per aver pubblicamente apprezzato la mia recensione e da lì partiamo: “Beh, se l’ho fatto è perché mi è piaciuta proprio tanto. Fortunatamente ho ricevuto tanti bei giudizi e avrei voluto rispondere a tutti” – chiosa lui, mentre lascia l’autostrada per un’area di sosta dove ritemprarsi e dar il via alla chiacchierata. Rievocati i nostri primi incontri in Sicilia, durante l’ascesa dei Marlene verso il meritato consenso nazionale, sorridiamo al ricordo di una loro esibizione a Catania per il tour de Il Vile (1996), con un’accozzaglia di cattedre e banchi a fargli da palco traballante: “Era in un centro sociale e poi, praticamente, la mia “postazione” cedette e a un certo punto crollai. Diciamo che, in questo caso, la definizione di “concerto eroico” non è esagerata!” – esclama Cristiano. Il 1996 è lontano ma l’entusiasmo del cantautore cuneese verso la musica si è preservato intatto, crescendo all’unisono con le sue esperienze, come quella solista.

Quale esigenza artistica ti ha spinto al passo in solitaria?

“Far arrivare queste canzoni alla forma in cui si sentono adesso. Non potevo chiederlo ai Marlene, perché avrei dovuto pretendere una performance al servizio di brani con un’attitudine che i ragazzi non hanno e che non sarebbe stato giusto tirar fuori in maniera poco spontanea. Il modo di suonare che ho utilizzato qui mi accompagna in maniera potenziale da sempre e in modo effettivo da una decina d’anni, nel momento in cui ho cominciato a strimpellare sulla chitarra acustica con una finalità. Questo sound è nella mia testa da quando ascolto rock. La West-Coast americana - Neil Young prima di tutti ma anche Buffalo Springfield, Byrds, Jefferson Airplane - mi appartiene d’ancor prima che io m’imbattessi nei Sonic Youth. Mi ero perso il cuore fa emergere quell’aspetto di me che non era ancora venuto fuori”.

Quindi sono canzoni nate con l’obiettivo di portarle in giro da solo?

“A parte due esperimenti ibridi finiti comunque nell’album, nei quali non avevo ancora ben chiaro che avrei voluto intraprendere un percorso solista, tutti gli altri sono veramente brani che ho iniziato a pensare col preciso intento di non presentarli ai Marlene Kuntz in sala prove. Perché se questo fosse successo, sapevo che avrebbero preso un’altra strada e io non lo desideravo. Ci sono pezzi che hanno proprio un andamento quasi country e io non proporrei quella roba lì alla band, perché so che verrebbe sviata e condotta altrove dalle dita di Riccardo e Luca. Infatti, sono andato molto disinibito nella direzione di ciò chiamano Alternative Country, Americana, Folk e quant’altro, sapendo che era un mood che io non avrei mai ottenuto coi Marlene. A casa mia mi sono lasciato andare, certo che poi avrei gestito queste canzoni da solo”.

Conoscendo le tue fascinazioni musicali, ci si aspettava un’atmosfera più prossima a Nick Cave che alle influenze citate.

“Credo non si senta un sound alla Nick Cave perché lui compone al pianoforte e io alla chitarra. Sono proprio due approcci diversi, che generano presupposti diversi. Il pianoforte ha delle potenzialità espressive che sono differenti da quelle che ti dà la chitarra acustica. Per rimanere in Italia, si pensi ad esempio ai cantautori che noi riconosciamo come i “boss” di questa tradizione: De André, De Gregori, Guccini, sappiamo d’immaginarli con una chitarra acustica; Lucio Dalla, di cui sono grande fan e che considero di gran lunga il migliore, lo immaginiamo invece con un pianoforte e, in effetti, ci sono delle notevoli differenze sonore fra loro. Un’altra motivazione è che con Gianni Maroccolo e Luca Rossi si era già deciso di non lavorare in eccesso sugli arrangiamenti. Quindi: no violini, no sezioni d’archi, no ridondanze. Con questo non voglio dire che i dischi di Nick Cave siano ridondanti, figurati se mai lo penserei, però nei suoi album si sente spesso un desiderio di creare canzoni ricche dal punto di vista armonico e degli arrangiamenti. Il mio disco, invece, volevo non si distanziasse troppo dall’idea del songwriting casalingo. Si sentiva la potenza delle canzoni nella loro crudità e nella loro nuda essenza e si è puntato a non allontanarsene. C’è un album di Nick Cave, che peraltro probabilmente è il mio preferito dopo The Good Son, di cui sento qua e là nel mio disco la stessa attitudine gloriosamente mesta: è The Boatman’s Call. Amo Nick Cave da più di trent’anni e, se bisogna rintracciare una qualche similitudine con questo mio grandissimo amore, allora risiede in quei solchi”.

Creare in studio produzioni calde e ariose ma comunque essenziali e senza fronzoli, come in Mi ero perso il cuore, è più complicato che affastellare una sull’altra piste su piste di strumenti, voci, elettronica e quant’altro.

“Sì, dici bene e sono d’accordo su tutto. Non è facile ottenere un risultato di calore e accoglienza con un sound scarnificato. Tant’è che sono molto tranquillo e sicuro nel dire che questo disco non l’avrei potuto ottenere dieci anni fa, perché il calore di cui stiamo parlando è prima di tutto nel tocco, nelle dita con cui ottengo un suono alla chitarra acustica, che è molto basica come concezione e che, come giustamente hai scritto, detta legge nel mio album ed è proprio così. Credo di potermi ragionevolmente dire orgoglioso di essere riuscito ad arrivare ad avere nelle dita un sound che non è ovviamente basato sul funambolismo tecnico, perché io non sono sicuramente un chitarrista di valore da quel punto di vista, ma è un suono che ha una sua importanza perché è basato sulla densità del tocco. A prescindere da tutto, questa per me è comunque una qualità più pregnante del funambolismo. Non sono così ingenuo da rifiutare l’approccio tecnico a tutti i costi, anzi. Ho grande rispetto e ammirazione nei riguardi di chi sa suonare lo strumento di sua competenza con la massima perizia tecnica. In questo momento sto pensando a quant’è bravo Stefano Bollani al pianoforte. Non posso che invidiare la capacità immensa che ha quell’uomo di suonare qualsiasi pezzo e ottenere completezza da ogni registro lui desideri utilizzare per le sue composizioni. Detto ciò, a parità di valore fra tecnica e suono, preferisco quest’ultimo perché il tocco mi affascina di più. Tornando a Neil Young: non è certo un chitarrista tecnicamente mirabolante, però il suo sound alla chitarra acustica è prezioso, fantastico e unico”.

C’è un’affascinante compenetrazione fra il contenuto delle tue liriche e gli arrangiamenti che le avvolgono. In Ciò che sarò io l’incedere è rallentato come se la musica stessa volesse trattenere a sé la donna che fugge nel testo. È stato voluto o si è realizzato per la magia che a volte si compie quando certe parole sono esattamente ciò di cui la musica ha bisogno?

“È la seconda delle due che dici, perché ho un chiaro ricordo di dov’è nato lo strimpellamento di questo pezzo. Ero in un agriturismo di un amico in Maremma, curiosamente lo stesso posto dove composi un buon settanta per cento di Senza Peso. In quell’agriturismo mi sono ritrovato di passaggio due anni fa. Quella notte, prima di dormire, ho preso la chitarra in mano e mi è venuto fuori quel giro d’accordi con questa lentezza quasi esasperante, che io adoro. Poi le parole sono arrivate dopo e quindi sì, credo di essere riuscito a trovare quelle giuste per la musica che non chiedeva altro che ciò”.

Un altro esempio potrebbe essere Sei sempre qui con me, dove l’ossimoro di una presenza in realtà assente strugge il protagonista. Un elegante arrangiamento ritmico e la slide guitar fanno da contrappunto alle aperture melodiche.

“Anche qui il testo arriva dopo la musica. Questa, in particolare, credo sia una delle prime che ho composto quando ho cominciato a tirar giù pezzi per me. Quindi, credo che le musiche di questo brano abbiano almeno tre anni di vita. Adoro l’arrangiamento e la slide guitar di Luca Rossi, che a me riconducono sempre e comunque - ancor prima che nei luoghi di stretta pertinenza delle slide, come il country americano - in quelli dei Gun Club di Miami, qualcosa che mi allarga di profonda emozione il cuore. Le slide di Luca nel disco sono una vera ciliegina sulla torta, per me. Quando lui le ha proposte, ero veramente molto soddisfatto ed emozionato. Il testo si adegua a questa musica fortunatamente, anche qui, in maniera molto funzionale. Però si tratta di un’assenza diversa, non connessa con un sentimento d’amore”.

Nella natura è la canzone più atipica del tuo intero canzoniere, non solo di Mi ero perso il cuore.

“Credo tu colga nel giusto, perché anch’io ci sento dentro la bizzarria tipica di quel modo un po’ psichedelico di creare musica di un certo tipo. Anche gli arrangiamenti che ho chiesto a Enrico Gabrielli vanno in quella direzione, che io oserei definire tra il bizzarro, lo psichedelico e il bislacco, soprattutto se inquadrati in una dimensione di rock serioso, come il mio inevitabilmente è sempre stato. Ben venga il tuo invito implicito a non lasciarlo come unico episodio. Di sicuro ne convengo, è una canzone anomala, anche nel sound scelto. Ad esempio, la mia chitarra acustica è stata registrata con l’iPhone e tutto va nella direzione di qualcosa di particolare”.

In molti testi dei Marlene Kuntz, i personaggi – o i tuoi alter ego narrativi – si ergono fieri rispetto agli eventi che si svolgono nelle liriche, a volte quasi con un atteggiamento titanico. In Mi ero perso il cuore, invece, c’è molta empatia, come se tu volessi prendere per mano l’ascoltatore.

“Era mia volontà riuscire a spostare altrove, rispetto al percorso d’autore nella band, i testi di questo mio disco. Volevo proprio cercare, senza forzature ma con un po’ di determinazione, di trovare una via espressiva che non fosse la “solita” di Godano con i Marlene Kuntz e l’ho trovata in questa chiave che hai molto bene illustrato tu.  Non ero mai arrivato a vedere i miei personaggi stagliarsi quasi con risultanze di sforzi titanici nei confronti della realtà intorno, come hai detto, però non mi dispiace per nulla questa visione. Le parole in Mi ero perso il cuore non hanno sicuramente questo manto di epicità che tu hai rintracciato nelle liriche dei Marlene; questo vuol dire che sono riuscito nel mio intento di fare qualcosa che, non solo musicalmente ma anche a livello testuale, giustificasse artisticamente il mio desiderio di un disco solista”.

Anche nel tuo album, come già in alcuni brani dei Marlene, ti soffermi con delicatezza sul complesso rapporto padre-figlio. Argomento desueto nella poetica rock italiana, forse perché particolarmente impegnativo.

“Sì, è vero, hai ragione. Io la trovo una cosa fertile dal punto di vista creativo. Ho iniziato a introdurre la figura di mio figlio con due tracce di Che cosa vedi: Grazie e Serrande alzate. Quest’ultima è una canzone di densa poesia, dove ho semplicemente raccontato il mio stupore di padre provato mentre accompagnavo nel sonno mio figlio, che all’epoca aveva quasi tre anni. Quel giorno, mentre cercavo di farlo addormentare, credo di essermi connesso per qualche prezioso frangente con il suo passaggio dalla veglia al sonno. Un momento fatto di magie imperscrutabili, perché chiaramente lui era solo un bimbo, e io ho raccontato di un mondo fatato. Quello è stato l’inizio di un piccolo percorso di brani dedicati a lui, come Pensa da Canzoni per un figlio, che parla della gentilezza. Mi vanto di aver introdotto questo tema ormai da una decina d’anni; ora è un valore di cui si sta parlando e si sta scrivendo molto, perché il mondo si è incattivito, è affaticato, è nervoso e ha perso alcuni valori. Mi sarebbe piaciuto, semmai, che ci si fosse accorti che già dieci anni fa Godano cantava della gentilezza come valore da recuperare. Quindi mi sembra un luogo fertile per la mia creatività. Non ne voglio ovviamente abusare, non ne ho nessun interesse né voglio trasformare mio figlio in occasione per la mia creatività; le poche volte che è successo è accaduto in modo limpido, molto poco opportunistico ma semplicemente del tutto spontaneo e quindi non vedo perché mi sarei dovuto censurare nel fare questa cosa”.

Fin dagli esordi dei Kuntz, hai piegato con efficacia il nostro idioma a una musica che, tradizionalmente, ha poco a che fare con esso. Cosa ti affascinava allora, quando molti cercavano scorciatoie in un banale italiano o in un improbabile inglese, nel misurarti con una sfida ai tempi tutta da vincere e cioè rendere credibile il rock in italiano?

“Io ero molto consapevole delle difficoltà, perché non ero soddisfatto di ciò che sentivo dai gruppi precedenti al mio, tranne uno: i CCCP. Avevano trovato una via incredibilmente originale per cantare in italiano su una musica d’impianto anglosassone. Ferretti riuscì a inventare un modo autonomo di rendere potente il suo linguaggio e la loro proposta musicale, mantenendo le sensazioni di una musica pienamente influenzata da ciò che mi piaceva, quindi il punk e il rock; però ottenendo nella nostra lingua qualcosa che fosse capace di essere comunque affascinante e suggestiva, senza avere la sensazione di sentire degli italiani che cercano, e non ci riescono, di fare quello che fanno gli inglesi e gli americani. Ho la netta sensazione di essere partito proprio da lì. In pezzi come Sonica piuttosto che 1° 2° 3°, secondo me, c’è una sensazione di Ferretti: il cantato di Sonica è molto ferrettiano. Però ci sono altri brani, sempre da Catartica, che già si emancipano da questo modello e introducono la componente melodica: penso a Lieve, Trasudamerica, Gioia (che mi do)… E lì la sfida fu raccolta con consapevolezza, senza però essere ancora consapevole di che tipo di tentativo io stessi facendo. Semplicemente, sono riuscito a ottenere qualcosa che ha funzionato; con un lavoro che, come giustamente hai scritto, agli ascoltatori sarà sembrato lineare ma che per me ha rappresentato una fascinosa difficoltà: riuscire ad addomesticare l’italiano in un contesto che fino a quel momento, storicamente, sembrava non essere addomesticabile. Ho provato a riflettere un po’ su questi aspetti nel mio libro Nuotando nell’aria, in maniera diretta o laterale”.

Nelle vesti di scrittore sei a tuo agio. Come artista, non trovi soluzione di continuità fra l’essere sia autore sulla lunga distanza in un libro, sia cantautore, sia paroliere nei Marlene?

“Delle difficoltà ce le ho e le so ben individuare, anche se ammetto di avere un qualche tipo di talento per la scrittura. Ci sono molte persone che apprezzano il mio modo di scrivere e lo riconoscono personale; questo, per me, è motivo di grande soddisfazione. Sono molto deferente nei riguardi della letteratura. Scrivere testi per canzoni non è come scrivere in prosa, sono due mondi distinti e separati fra loro. Un po’ di soluzione di continuità la sento. Scrivere in prosa per questioni non troppo impegnative - che non siano romanzi, insomma - mi risulta, in effetti, particolarmente semplice. Esprimersi in prosa con finalità artistiche, come ad esempio i lunghi racconti del mio libro I Vivi o il romanzo che sto cercando di scrivere, è invece per me particolarmente diverso e fascinosamente tortuoso e ha molto a che fare con la creatività. La mia fantasia artistica lavora facilmente nel breve; nel lungo fatica un po’ di più, invece”.

Cos’ha di più confortevole il ritrovarsi da soli su un palco rispetto allo starci con la band, dopo tanti anni insieme?

“Non so come dirlo in un modo che non suoni equivocabile, ma sono due cose talmente distinte che, quando sono da solo, non sento la mancanza dei Marlene e quando sono con loro non sento l’esigenza di ritrovarmi da solo. Come solista sono soltanto gioie, come la sensazione di grossa soddisfazione nel sapere che, anche senza il “ruggito” di Riccardo, Luca, Lagash e Davide, ottengo comunque una risposta da parte del pubblico. Sono due approcci diversi, che m’interessava di poter dominare entrambi nella vita e nella dimensione solitaria ci sto riuscendo”.

Al momento in cui scrivo, la seconda ondata di contagi da Covid-19 ha ripristinato le misure deterrenti contro il virus, prima rinviando e infine annullando le nuove date parzialmente già annunciate, che avrebbero visto Godano sul palco con la line-up responsabile dell’incisione di Mi ero perso il cuore. Un’occasione attesa con trepidazione dal cantautore, dopo il warm-up estivo in solitaria, ma che dovrà essere ancora rimandata: “Sono consapevole che questi pezzi stanno in piedi da soli ma, allo stesso tempo, mancano di quel corredo che, per quanto noi l’abbiamo analizzato come minimale, resta comunque vitale per dar loro tutta la pienezza che meritano. Io li sto interpretando in solitaria, e mi soddisfa e mi esalta non poco suonarli in questo clima di potente silenzio. Li suono e sento un’atmosfera di sospensione che mi rimanda il pubblico, seguendomi con molta intensità. Questo m’inorgoglisce perché negli ultimi dieci anni, da quando ho cominciato a prendere coraggio nel suonare da solo con la chitarra acustica le mie canzoni e quelle dei Marlene Kuntz, credo di aver fatto molta strada, proprio nei termini di quel “ tocco” di cui parlavamo prima. Riuscire con le semplici chitarra e voce a ottenere queste atmosfere d’enorme intensità da parte del pubblico è un traguardo molto importante per me, che voglio poter chiaramente definire al meglio d’ora in avanti. Penso di essere solo all’inizio, da questo punto di vista”.



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Foto di Guido Harari.