interviste
Don Antonio La bella stagione di Antonio Gramentieri
Incrociare pensieri e parole con Antonio Gramentieri e ' sempre un piacere; ancora piu ' in occasione di un nuovo, bellissimo disco. Ecco l'intervista - confessione di un artista che ha molto da donare al pubblico.
D. Innanzitutto grazie per concederci questa chiacchierata...ci conosciamo da più di dieci anni, ormai, e ho seguito il tuo percorso con grande interesse, dai Sacri Cuori fino a questo splendido disco, La bella stagione, interamente cantato, e in italiano. Qual è il filo conduttore che sta segnando la tua evoluzione? R. Grazie a te e a voi. È un momento caotico, bulimico, isterico: l'interesse non si può mai dare per scontato, oggi meno che mai. E ricevere attenzione per le proprie cose è un privilegio che so ancora riconoscere, che non do per scontato e che non ho intenzione di sottovalutare, mai. Le arti, a qualsiasi livello si riescano a produrre o a fruire, esistono se continuano ad essere un dialogo. Il filo conduttore di questo mio percorso è credere - ancora - che una canzone sia uno strumento in grado di farmi rapportare alle cose, mettermi in relazione ad esse ed esprimere qualcosa che sento. Che la canzone – come mezzo, con o senza parole - sia ancora una specie di navicella spaziale capace di farmi viaggiare dentro e fuori, di farmi relazionare in maniera piu' profonda al mondo, e a me stesso. Una sorta di passaporto evocativo che mi consente un accesso. Accedere sia all'immensamente intimo del mio sentire sia, come è capitato spesso, a terre straniere. A quello che il mio amico Larocca chiama Il cuore degli sconosciuti. Non sono sicuro che il mio sia un processo sempre evolutivo, ma è certamente un percorso sincero. Che a volte si muove sui confini di territori noti, e a volte conduce in luoghi diversi, come in questo caso.
D. La tua chitarra è sempre stata la compagna della linea melodica dei tuoi pezzi, e ora sottolinea la tua voce; che rapporto hai col tuo strumento?
R. Con gli anni, maturate le competenze minime per suonare la chitarra senza doverci pensare troppo, senza rimanerci ogni volta troppo sotto o troppo sopra, ho imparato a considerare gli strumenti per quello che sono: degli strumenti. A volte bellissimi, complessi, intriganti, avventurosi e interessanti da esplorare. Ma comunque strumenti. Il punto decisivo è il motivo per cui li usi. Cercare qualcosa da dire, con gli strumenti a disposizione. La voce è uno strumento con cui ognuno di noi ha un rapporto molto intimo. La mia non è educata al canto, e presumibilmente non è nemmeno particolarmente adatta o versatile per quella specifica cosa. Eppure la voce è lo strumento con cui sentivo di dovere esprimere le cose che avevo da dire, stavolta. Doveva essere la voce mia, e non della mia chitarra, e doveva cantare delle parole.
D. Parliamo adesso dei tuoi riferimenti culturali, letterari e musicali: qual è la relazione fra musica e testo, sia in te come ascoltatore o lettore, sia in te come compositore e cantautore?
R. Amo moltissimo le canzoni. Non ho un rapporto facile col cantautorato, per contro. Forse per avere frequentato molto le parole, prima dei suoni, e per il fatto che scrivere è stato un mestiere, prima della musica. Riconosco i trucchi, riconosco la sterzata nel luogo comune, riconosco la frase che predica ai convertiti. E, col massimo rispetto, davvero detesto quel modo di scrivere canzoni. Le immagini poetiche per forza, preconfezionate, l'ostentazione di appartenenza a un qualche mondo poetico o geografico di riferimenti. No, grazie. Il mondo della canzone che si autodefinisce “di autore” è una delle cose che mi dispiacciono di più in assoluto. Per contro adoro, al limite della venerazione religiosa, chi sa mettere giù una frase, un'immagine rapida, e con quella apre un mondo. Tre parole che chiariscono già la scena, il rapporto spaziale ed evocativo fra i protagonisti della scena. Paolo Conte. Sam Shepard, John Cheever, Fred Neil. Lou Reed. Guy Clarke, ovviamente Dylan. Dan Stuart. Ennio Flaiano. Giovanni Lindo Ferretti. Son House. Torno sempre lì. Agli archetipi.
D. Sei stato a contatto con moltissimi artisti, italiani e internazionali; da quali hai tratto e trai maggiore ispirazione?
R. Dan Stuart. E non tanto per il modo di cantare e di scrivere canzoni: il suo è ineguagliabile. Per il suo mettersi di traverso sui clichés, anche sui propri. Per il suo procedere per agguati. Per non cercare amici, fra gli ascoltatori, e nemmeno fan. Ma semplicemente umani a cui entrare in relazione, con le canzoni. Per andare avanti alle proprie condizioni artistiche e di ispirazione. Sempre e comunque. Per non leccare mai le terga a nessuno, mai. La grandezza di Dan è stupefacente. Come quasi tutti gli artisti che amo, Dan non ha la password per essere troppo popolare e spendibile, oggi, nelle scene attuali che funzionano con le modalità attuali. Ma è un gigante. Fragile, come molti giganti. Scomodo, come molti giganti. Non ti dà mai quello che gli chiedi. E lo ringrazi per questo. Credo che, in un mondo oscenamente votato al paraculismo come quello della canzone americana da esportazione, specie Euro-export, Dan mi abbia mostrato ogni volta cosa significhi essere un artista vero, prima che un musicista. Poi ho suonato con molta altra gente bravissima, a cui devo molto. E li conosci tutti. Ma cito Bobby Solo, perché ha un portamento sulla voce e sulla chitarra che si incontra poche volte nella vita. E mi ha insegnato tanto.
D. Le tracce del tuo nuovo disco, La bella stagione, contengono molti spunti e una varietà di toni, ritmi e spunti. Si va dal blues di Fuoco al rock alla Lou Reed di Batticuore o Capiscimi, allo spoken word di Lo stesso, all’elettronica di Ponente, a quello che mi piace definire bozzetto psichedelico, come la splendida Distanza o l’iniziale Acceso, dal testo così poetico da fare pensare che sia stata prima composta come poesia, e poi messa in musica. Cosa sta succedendo nel tuo profilo di artista?
R. Ho quasi cinquant'anni, mi fa effetto pensarlo. Ho un bagaglio di esperienze sonore e di ascolto che comincia ad essere bello pieno. Posso tirare fuori dal bagaglio diverse cose che so maneggiare abbastanza bene, a cui ho preso bene le misure. In questo disco avevo delle storie, e ho lasciato che ogni storia gravitasse naturalmente verso una forma e un vestito sonoro che ne assecondassero la narrativa. Il racconto stavolta è al centro di tutto. Non c'è stata una scaletta o una gerarchia chiara fra suoni e parole, ma ho cercato di tenere la musica più lineare possibile, e di raccontarci sopra delle storie. È lo stesso motivo per cui alcuni racconti sono diventati racconti, senza musica, e sono finiti non in un libro ma in un disco. Certamente le canzoni sono cose scritte più con un registro poetico che strettamente narrativo. Come artista, o artigiano, credo solo di volere raccontare il mio momento emotivo. A chi vuole ascoltare, senza aspettarmi che siano molti. Ma mi basta siano veri. Facce, corpi. Non pollicioni alti sul web. Sono a un'età in cui è realistico pensare che non succedano più miracoli dal punto di vista commerciale, e forse nemmeno mai li ho cercati con troppa convinzione. Vendermi è una cosa che continua a imbarazzarmi molto. Parlo volentieri di quello che faccio, certo. Sono un figlio unico e ho un ego di buone dimensioni, ma cerco col mio ego un rapporto più sano e sincero possibile. Nei dischi ho cercato ogni volta di dire qualcosa che mi rappresentasse. Questo è già un obiettivo. E se hai ancora qualcuno che ascolta, sei un privilegiato. E senza dubbio lo sono stato, e lo sono. Finisse tutto qui, cosa non improbabile, è stato un viaggio molto bello.
D. Ci sono progetti in vista? Collaborazioni, concerti, composizioni…?
R. Sto lavorando per alcune colonne sonore, una cosa che mi piace sempre molto. Sono progetti importanti, belli e impegnativi. Sto portando in giro in Italia, per quanto possibile, le canzoni de La Bella Stagione, in quartetto con Roberto Villa, Arianna Pasini e Piero Perelli. È un concerto di canzoni, e fare una cosa così diversa dal solito è come cominciare da capo. Fresco, rischioso. Stuzzicante. Ogni tanto presento il libro, a cui tengo esattamente come al disco. In generale sto cercando di prendere le misure al momento storico, che davvero non mi piace. A breve scadenza le cose andranno molto male. Non finirà bene per svariati settori, e forse peggio di tutti per le arti e i percorsi live che si muovono fuori dal settore pubblico. A partire da questo inverno entreremo nella peggiore recessione culturale di sempre. Molti dei nostri luoghi di ritrovo e di fruizione per così dire “alternativa” non esisteranno più, non avranno le condizioni per sussistere, non soltanto economica, ma socio-culturale. E, se la vetrina di esposizione e di confronto diventa il web, e i media e le rassegne mainstream, sappiamo già che non ci sarà spazio per certe cose. Credo nascerà qualcosa sotto le ceneri, forse anche qualcosa di bello e nuovo. Ma non subito. Digerire questo biennio richiederà il tempo di un dopoguerra, e sarà la ricomposizione – non semplice – di una guerra civile silenziosa nata sopra l'emergenza. Cercata e provocata, per motivi che capiremo col tempo. Quindi è probabile, anzi verosimile, che per tutta una generazione di artisti, che hanno fatto le cose in un certo modo, sia finita qui. Che non ci siano più il tempo e lo spazio. Se arrivare a tutto questo fosse necessario, se davvero tutto fosse meglio che (rischiare di) morire, sul serio non so dirlo. Sono domande enormi, e le risposte stanno dove sono le risposte alte sul senso della Vita. Nella Filosofia, nell'Etica e forse nell'Arte. Nella Poesia, spesso. Di certo non nel bollettino delle sei di sera.