Enrico Deregibus

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Enrico Deregibus Enrico Deregibus: della musica, prima di tutto!

09/11/2024 di Laura Bianchi

#Enrico Deregibus#Italiana#Canzone d`autore

Per la serie di incontri con chi si impegna per la diffusione della musica d'autore, incontriamo oggi Enrico Deregibus, critico musicale, scrittore, organizzatore di festival. Ma soprattutto persona innamorata della buona musica. Una lunga chiacchierata, ricca di spunti di riflessione.

D. Innanzitutto, grazie per aver accettato di incontrarci! 

R. Grazie a te e alla mitica Mescalina!

D. Com’è nato il tuo interesse per la musica?

R. Il momento scatenante non lo ricordo, ma ricordo benissimo che da piccolissimo giocavo con due scope fingendo fossero una chitarra elettrica e l’asta di un microfono. Poi ho anche fatto una lezione di chitarra, avrò avuto 7-8 anni, ma la noia ha subito vinto. Non ci sono più tornato. Però la musica mi attraeva sempre, anche se in modo diverso: a 10-11 anni scrivevo recensioni di dischi, mi trascrivevo su un quaderno le classifiche settimanali, badavo non solo ai cantanti ma anche agli autori, agli strumentisti, insomma sentivo attrazione non solo per la musica ma anche per quel che c’era dietro. Intanto con alcuni amici avevo scoperto i cantautori e lì è cambiato tutto. Ho iniziato a far caso ai testi, ad apprezzare un tipo di canzone più densa, meno banale e allineata di quella che all’epoca si chiamava musica leggera, con contenuti importanti. L’82 è stato l’anno della svolta. Avevo 15 anni. Ricordo Titanic di De Gregori, forse il disco che mi ha dato di più in assoluto. E poi i primi cd: Brilliant Trees di David Sylvian e Rain Dogs di Tom Waits, ma lì ormai ero diciottenne. Parallelamente è nato e cresciuto l’amore per il giornalismo, non tanto e non solo musicale. E anni dopo le due strade si sono incrociate.

D. Molte delle tue produzioni letterarie sono incentrate sulla biografia e sulla discografia di cantautori ormai patrimonio della nostra cultura, da De André, a Tenco, a De Gregori; quanto ritieni importante la conoscenza della vita degli autori per la comprensione delle loro opere?

R. Dipende. Le vicende personali sono fondamentali da raccontare quando sono legate agli aspetti artistici, ma bisogna stare bene attenti, anzi attentissimi, a non scivolare nel pettegolezzo o comunque nell’inutile. E poi è importante secondo me contestualizzare il più possibile il percorso personale di un artista nell’epoca storica e anche nel territorio in cui si svolge.

Bisogna raccontare quello che serve a godersi meglio l’opera d’arte, a vederne più sfumature, anche se tutto deve partire sempre dal rapporto nudo fra ascoltatore e canzone. Nel caso delle canzoni poi non è necessario spiegarle, ma offrire spunti, curiosità, direzioni possibili.

In generale credo che la saggistica musicale sia importante perché può aiutare a far capire che la canzone è cultura, ha la stessa dignità della poesia o di altre arti. Io non sopporto quando di un bravo cantautore si dice che è un poeta. È sminuire la canzone come mezzo espressivo.

D. Hai anche una lunga esperienza come organizzatore e responsabile di festival ed eventi, Premio Tenco, MEI, Premio Bianca d'Aponte, PeM!, Voci per la libertà, Premio Lo Cascio, gli incontri di Sanremoff e moltissimi altri. Come pensi sia cambiato il mondo musicale che ruota attorno a queste iniziative?

R. È cambiato tantissimo. Ho iniziato a organizzare eventi musicali e culturali nel 2001, sono passati 23 anni e con loro molti modi di intendere e volere la musica. Nell’industria musicale il live a quei tempi si affiancava al disco, ora quest’ultimo sta volatilizzandosi sempre più, da vari punti di vista. Mentre il live è sempre più centrale e di conseguenza i festival che ospitano i live.

Credo però che oggi un festival che propone una serie di cantanti che salgono su un palco e fine lì sia come monco. È importante affiancarlo o alternarlo ad altro: ad altre arti, a momenti di approfondimento.

Poi personalmente più passa il tempo e più credo nell’importanza del ruolo sociale dei festival. Credo che sia fondamentale l’uscire di casa e andare a vedere insieme ad altri una cosa che abbia sostanza, che sia intrattenimento ma non solo intrattenimento. E non parlo solo di musica.  

D. Torniamo a parlare del PEM!, incentrato sul territorio monferrino, di cui sei originario. In che modo a tuo parere si potrebbero valorizzare le realtà locali, senza inseguire i grandi numeri, ma puntando sulla qualità delle proposte?

R. È una bella domanda. Ed è una bella sfida, per me davvero avvincente, quella di valorizzare luoghi che amo e contemporaneamente proporre artisti o intellettuali di valore al di là della loro popolarità. Sul come farlo il discorso sarebbe molto lungo, però posso dire che è importante fidelizzare il pubblico, fargli capire che un certo festival offre contenuti di qualità a prescindere dalla notorietà. Quando qualcuno mi chiede di consigliargli una cosa da venire a vedere in qualche festival in cui ho la responsabilità di scelte artistiche gli rispondo: vieni a vedere quello che non conosci. Poi bisogna ovviamente cercare di avere comunque nomi noti, sono indispensabili per attrarre, ma evitando cose banali. Nel caso di PeM, che è una manifestazione basata in buona parte su talk con musicisti, attori e intellettuali, cerchiamo di fare in modo che i personaggi più famosi possano comunque raccontare aspetti particolari del proprio mondo e della propria visione del mondo. Il mio obiettivo è sempre far sì che lo spettatore passi una serata piacevole ma allo stesso modo torni a casa con qualcosa di nuovo e interessante in testa. Tutto questo serve anche ad attrarre pubblico da zone lontane, pubblico che poi scopre un territorio credo molto bello come il Monferrato, ma non ancora conosciutissimo. Creare una proposta il più possibile caratterizzata è molto importante da questo punto di vista. Faccio sempre l’esempio di Enrico Ruggeri che abbiamo ospitato qualche anno fa per un incontro. In quell’occasione sono arrivate dieci persone da Bolzano proprio perché erano interessate a quello, non a un concerto ma a un talk con lui. E così hanno scoperto anche posti e cose che non sospettavano esistessero.

D. Cosa suggeriresti a un giovane che intende avvicinarsi all’esperienza dell’organizzazione e della promozione di festival ed eventi musicali?

R. Be’, gli direi che è qualcosa sicuramente di affascinante ma se vuoi farlo bene devi considerare una serie di variabili che dall’esterno non sono visibili. Organizzare un festival non è solo quello che si vede. È, ad esempio, molto faticoso. Molti pensano che sia un giochetto, non è così. Poi è chiaro che è più gratificante di molti altri lavori. Ma è un lavoro, questo va sottolineato.

Il consiglio è quello di fare il volontario in qualche festival, occuparsi di cose di base come il trasporto o come la sistemazione delle sedie, per capire da dentro com’è organizzare. E così via. Ad esempio rendersi conto di cosa vuol dire fare un comunicato stampa, che per molti è un oggetto misterioso. 

D. Il Premio Amnesty International Italia, la Settimana dei diritti umani di Rovigo, l'Officina delle arti Pier Paolo Pasolini…quanto ti senti legato all’impegno sociale, intrecciato con quello in campo musicale?

R. Un certo tipo di musica è legata anche all’impegno sociale, ma tutte le canzoni sono in qualche modo politiche, anche se parlano d’amore. Credo comunque che nella maggioranza dei casi una canzone debba puntare innanzitutto ad essere libera da ogni imposizione, che sia commerciale o ideologica poco importa. Premesso questo, sicuramente una bella canzone che parla di un tema sociale può avere una forza non indifferente. Io ho certe idee e una certa visione del mondo anche perché ho ascoltato certe cose da adolescente, mi hanno aperto gli occhi, non solo il cuore. La storia della popular music poi è legata fortemente a quello che è successo nel mondo nel tempo. Anche per questo una certa musica non può essere solo intrattenimento.

D. Col passare degli anni sei diventato sempre più richiesto come intervistatore di musicisti, attori e intellettuali, davanti a un pubblico. Che esperienza è? Cosa serve per farlo?

R. È una esperienza molto interessante. Come per ogni intervista bisogna essere preparati su chi intervisti e, a meno che non sia scritta, bisogna ascoltare le risposte, cosa che non tutti fanno, perché dalle risposte a volte nascono le domande più interessanti. Io poi cerco il più possibile di evitare i luoghi comuni e il dannato gossip, che personalmente trovo insopportabile. Provo molto fastidio quando in tv in certi programmi vedo che si sta per andare a finire lì. Poi, certo, se nella chiacchierata viene fuori qualcosa di quel tipo va anche bene, ma deve essere un momento marginale. Ma queste cose riguardano appunto ogni intervista. Davanti al pubblico c’è molto altro. È importante cercare di creare un clima piacevole con l’intervistato, impostare la cosa come una chiacchierata informale.

Si crea un rapporto particolare fra due persone, perché ce n’è una terza lì davanti, silente: il pubblico. Bisogna tenere presenti entrambe le cose, l’affabilità della chiacchierata e la presenza di un osservatorio e uditorio che giustamente deve essere considerato, nutrito. Cerco di passare dall’alto al basso, dall’aneddoto e dalla battuta, se viene, alla riflessione magari più profonda, che può essere umana, sociale. E poi è piacevolissimo perdersi a parlare di cose che non erano in scaletta, lasciarsi portare dal discorso. Alla fine spesso mi spiace non aver toccato tutti i temi che volevo, mi restano domande sul taccuino, ma l’importante è che sia venuto bene quello che abbiamo fatto in quell’ora e mezzo di chiacchierata. Non quello che non abbiamo fatto, anche se ovviamente ci sono domande che giornalisticamente vanno sicuramente fatte. Un’altra cosa importante è non prevaricare l’intervistato, avere ben chiaro che il protagonista è lui, non sei tu.

D. Qual è il tuo più grande sogno nel cassetto? Cosa manca perché lo possa realizzare?

R. Guarda, io parto sempre dal presupposto che nella vita faccio un lavoro molto simile a quello che vorrei fare e questo è un enorme regalo del destino. Diciamo che vorrei avere tempo per poter fare più libri come quelli che amo fare, cioè libri di approfondimento, di ricerca, libri che necessitano di moltissimo tempo e testa. E poi, per quanto riguarda i festival, mi piacerebbe avere totale libertà di manovra e di scelta, ma per vari motivi questo è difficile. Parlando più in generale, vorrei che questo che faccio fosse considerato un lavoro come un altro. Ed un lavoro importante perché la qualità di un paese dipende anche da cosa offre la scena culturale di quel paese e come la offre. Prima o poi magari succederà.


Ce lo auguriamo tutti! Grazie!