Filippo Andreani

interviste

Filippo Andreani Una nuova occasione per scoprire una delle gemme nascoste della canzone d’autore, e non solo, italiana .

09/02/2015 di Giuseppe Verrini

#Filippo Andreani

Filippo Andreani, 37 anni comasco, con una lunga storia musicale alle spalle e con ben otto album all’attivo, cinque con Atarassia Gröp e tre da solista, è uno dei maggiori “best keep secret” della musica italiana di questi ultimi anni. Lo incontriamo in occasione dell’uscita del suo ultimo album La prima volta (vedi recensione).
Ciao Filippo, raccontaci un po’ di te, dove vivi, com’è la tua vita,?

Ciao caro Giuseppe, ciao a tutti i tuoi lettori. Vivo in provincia di Como, in un piccolo paese tra un fiume, un bosco e una strada che porta in Svizzera. Quando non sono in ufficio faccio il papà di una piccolina che ha compiuto il suo primo anno in questi giorni. Oppure prendo la chitarra, o un libro, o un disco, e penso e sogno. Vivo, per intenderci. Adoro camminare nei boschi coi cani e cucinare cibi molto conditi. Sono il re incontrastato dei pizzoccheri, questo è certo. Rido sempre, o almeno cerco di farlo. Ma ultimamente sono a dieta: ci riesco un po’ meno.

Quando è nata in te la passione per la musica e quali musicisti ti hanno maggiormente influenzato?

Con le frequentazioni dei miei 14/15 anni. Mi ricordo il momento esatto in cui ho detto: voglio suonare questa roba qui. Era estate, forse domenica, ed ero in un prato con un amico. Eravamo seduti, i motorini buttati a terra poco più in là. Bevevamo una birra in due e fumavamo una delle prime sigarette. Quelle più buone, quelle di nascosto. Lui aveva un mangiacassette. Mi dice: “senti ‘sta roba”. Comincia “Emilia Paranoica” dei CCCP. Da quel momento, il resto è venuto da sé.

Come sono nati gli Atarassia Gröp, la tua prima band, e che tipo musica facevate ?

Eravamo cinque amici che non sapevano nemmeno da che parte imbracciare la chitarra. Nessuno ne aveva una, peraltro. Ma sapevamo che dovevamo fare una band. Per “andare via”, per divertirci, per dire delle cose. Avevo giusto quei 16 anni che servono per imbarcarsi nelle cose impossibili. Ci siamo riusciti. Abbiamo fatto qualche disco e centinaia di concerti fino al 2007, anno in cui per cause di forza maggiore abbiamo dovuto fermarci. La nostra musica era un mischione di stili: punk-rock, hardcore, ska e Oi!. Noi lo chiamavamo “Combat Burdel”.

Che ricordi hai del periodo trascorso con la band ?

Eh … infiniti … Loro sono i miei amici, i miei fratelli. Lo sono ancora e per sempre. Con loro ho condiviso tutto, dai palchi ai gabinetti fino ai letti a una piazza (testa/piedi, piedi/testa), con una naturalezza che esiste solo tra famigliari. Mi ricordo notti senza mai dormire, mal di pancia dal tanto ridere, prove e prove e prove per le nuove canzoni. Mi ricordo le facce incontrate in giro e rimaste amiche, il furgone stracarico, le autostrade belle del ritorno e le volte che “quasi quasi non tornerei neanche a casa”. Mi ricordo soprattutto quel nostro saper essere un piccolo branco: tutti per uno, uno per tutti.

I dischi realizzati dalla band sono di difficile reperibilità, c’è qualche progetto di ristamparli ?

Ce lo chiedono in molti e la cosa ci onora. Ma quello che è stato è stato. Ristampare senza risuonarli non ci stimola molto. D’altra parte rifare la band non è possibile, per cui …
 

Come mai hai deciso di lasciare la band e di iniziare un percorso da solista e di cambiare anche decisamente il genere di musica ?

Non ho lasciato la band, non l’avrei mai fatto. Ci siamo dovuti fermare perché – per ragioni personali – non ci era più possibile allontanarci da casa in quel periodo. Io però senza musica non so stare. Volevo suonare ancora. Solo che ero da solo. Se sei da solo fai le canzoni chitarra e voce. La scelta del genere, quindi, non è stata mia ma frutto delle circostanze!

Come ti sei avvicinato alle vicende del Capitano Neri e di Gianna che hanno ispirato il tuo primo disco da solista, La storia sbagliata, un concept album che racconta quella struggente e tragica storia di amore e Resistenza?

Da una lettura: “Ombre sul Lago” di Giorgio Cavalleri. Un libro che consiglio vivamente a tutti. Era già molto tempo che leggevo e studiavo quella vicenda. L’idea di fare un disco intero su di loro mi ballava in testa da anni.

Quel disco era introdotto dalle belle note di Marino Severini (Gang), come l’hai conosciuto ?

Marino … non so come l’ho conosciuto. E’ una cosa necessaria, Marino. E’ come il pane. Non saprei dirti quando ho conosciuto il pane … voglio dire … è normale che ci sia. Ci deve essere, il pane. Marino anche. Ho profonda stima di lui, lo considero un uomo perbene. Un uomo sincero. Un papà, un amico, un consigliere. Quando ho dubbi su cosa fare (musicalmente) o su come gestire una situazione, so che posso chiedere a lui. Mi insegna la vita. E non è poco.

Quasi due anni dopo il secondo lavoro, Storie con Pablo, cosa ci racconti di quel lavoro ?

Inutile. Non ne ho un bel ricordo, soprattutto perché ci lavorai insieme ad una persona che mi ha venduto parole e parole e parole, salvo poi non far seguire nemmeno un fatto. Musicalmente, non mi ha lasciato niente. Mi spiace molto perché alcuni temi (ad esempio la vicenda di Aldo Bianzino) mi erano molto cari e non sono riuscito a farli “arrivare” come avrebbero meritato. Perché ho fatto un disco che non mi è mai piaciuto? Non saprei. Credo per ingenuità.

Ma veniamo a questo nuovo splendido terzo lavoro, La prima volta, ci spieghi la scelta, visto il percorso musicale fatto, di questo curioso titolo e l’immagine del pettirosso in copertina ?

Amico mio, la risposta alla domanda di prima ti dice già tutto! “La prima volta” è la mia nascita. Ad un certo punto mi sono detto: “Filippo, svegliati!”. Ho ritrovato il vecchio entusiasmo, la voglia urgente di DIRE, la gioia di condividere la musica. E di chi è stato il merito? Mio, di sicuro, ma anche di quel signore di cui sopra: è stato Marino, comprendendo che avevo bisogno di una scossa, a suggerirmi “Il coraggio del pettirosso”. Un libro bellissimo, ma a me bastava già il titolo. Ecco cosa mi ci voleva! Queste canzoni sono nate in un periodo di prime volte: la ritrovata sincerità musicale, il piacere di lavorare con una band fissa, la mia bimba prima in arrivo e poi atterrata a casa nostra ….il titolo era d’obbligo.

La musica oscilla tra rock-punk e musica d’autore, un equilibrio ben bilanciato che rappresenta alla fine le tue due vere anime ?

Credo di si, Giuseppe: questo disco mi rappresenta bene. Benissimo. Per questo sono cosi felice e sereno: fare un disco dove tutto è al suo posto, dove non cambieresti niente e dove sei orgoglioso di ciò che hai detto, non è facile. E’ quasi una fortuna, più che un merito. È una congiunzione astrale.

Le canzoni sono dedicate a personaggi che indicano chiaramente le tue passioni per il calcio, la Resistenza, la musica oltre ad un forte impegno social, come hai scelto i protagonisti delle tue canzoni ?

Sono arrivati loro a bussarmi alla porta. Non avevo venti racconti e poi ne ho scelti dieci. Non ho scelto, davvero. Erano dieci le cose di cui volevo parlare, fin dall’inizio. Queste dieci. 

Ma in queste canzoni scorre in parallelo anche un po’ della tua vita, vero ?

E certo, caro mio. “Tito” sono soprattutto io, anche se fingo di parlare ad un bambino. E poi c’è “30 Gennaio 2014”, scritta tutta (giuro) sulla sedia appena fuori la sala parto dove, dopo un paio d’ore, avrei conosciuto la mia Annarella.

Come hai conosciuto e che tipo è Adelmo Cervi, figlio di uno dei sette fratelli Cervi, a cui è dedicata Canzone per Delmo che apre il disco, arricchita dalla voce di Marino Severini ?

Adelmo, che è del 1943, io l’ho conosciuto a Berlino, verso le 3 del mattino, durante un concerto punk. A sua parziale discolpa, devo dire che all’epoca era un po’ più giovane di adesso. Aveva 69 anni e mezzo. Questo, credo, è il modo migliore per dirvi “che tipo è Adelmo Cervi”! Un pazzo. Nel senso buono. Un entusiasta. Nel senso più pericoloso della parola. E comunque è minuto e magrolino: un bambino. Per questo mi sono messo in bocca la voce di suo papà: per coccolarlo un po’.

Una dei brani più riusciti di questo nuovo album è Gigi Meroni, scritta a quattro mani con il tuo concittadino Luca Ghielmetti, e dedicata alla “ farfalla granata”, primo vero beatnik, e alla sua compagna Cristiana, un calciatore di un’altra epoca , di un calcio che fu, cosa ti ha colpito della sua breve esistenza?

Tutto. Meroni l’ho sempre adorato. Quel testo l’ho scritto in un getto solo. Meroni, nella mia testa, è soprattutto il Luigino, quello di San Bartolomeo. Mio suocero ci ha giocato contro, quando erano bambini. Uno degli orgogli di Como. Il Luigino, dico, non mio suocero. E comunque anche mio suocero, che per me è un altro papà, è come il Luigino: introverso, sincero, buono. Non ha i suoi piedi, però. Mio suocero faceva il terzino.

Il disco si chiude con 30 Gennaio 2014, emozionante canzone dedicata alla nascita di tua figlia proprio in quel giorno (ma che è anche stata la data di uscita, quest’anno, del disco nuovo), pura coincidenza o precisa scelta?

Precisa scelta. L’arrivo di Annarella è stata una redenzione. Alla fine, nel disco, arriva a salvare tutti: il suo papà, la tristezza di Meroni e le lacrime di Cristiana, la malinconia di Adelmo, l’addio di Mura al suo “maestro” Brera, il mio amico Speedy e tutto il resto.

Progetti futuri ?

Non ne ho. Sono cosi contento di quello che mi sta accadendo in questo periodo che vorrei un eterno presente. Non ho bisogno di successo o di vendere molti dischi. Non mi serve la mia faccia sulle copertine. Voglio raccontare delle piccole storie, con le mie parole e con la mia chitarra. Senza essere un cantante e senza essere un musicista. Solo per il piacere di farlo. Ed è la “La prima volta” che ne sono davvero sicuro…
 

 Non perdetevi il suo showcase a Vinilmania a Milano il 14 Febbraio alle ore 11, e il concerto del 22 Febbraio a Como, Spazio Gloria.