interviste
Maurizio Marsico Intervista ai limiti della musica
Maurizio Marsico, pioniere musicale e visionario, capace di mescolare pop, punk, new wave, dance e un milione di altri suoni che nemmeno riusciamo a immaginare.
Maurizio Marsico è un artista unico: per anni "sembrava" scomparso dalle scene, lasciandoci in eredità i suoi suoni, frutto di una sapiente ricerca che l'aveva portato fin negli Stati Uniti. In realtà, lui non ha mai lasciato la musica.
La "ragazza" che è stata cullata a suon di Jethro Tull e Pink Floyd, che ama la musica "tradizionale" americana e che è stata adolescente negli anni '80, incontra l'avanguardia musicale italiana.
Il risultato? Lo troverete nell'intervista.
Chi era Maurizio Marsico negli anni '80 e chi è Maurizio Marsico oggi? Che cosa ti ha spinto a ritornare a fare musica dopo tanti anni di assenza? C'è stato un motivo particolare?M.M.: Fondamentalmente la stessa persona, un artista musicale che esprime la propria (a detta di molti) incatalogabile unicità, attraverso una tavolozza di colori (sonori e musicali) molto ampia, oltre i generi e gli stereotipi di genere. In fondo poi, non è così vero che io sia stato tanto assente. Se ad esempio, sul sito discogs, si osservasse con attenzione la mia discografia, si potrebbe facilmente notare che la più lunga distanza intercorsa tra un’uscita discografica e l’altra non sia mai stata superiore a sei anni (dal 2011 al 2017),quindi, ad esempio (e scusate il paragone), rispetto a un Peter Gabriel: quasi niente . Altro discorso invece merita il mio avatar Monofonic Orchestra che, se non dal vivo, tra il 1982 e il 2018, non avevo più ripreso. Uno dei motivi per cui la Monofonic Orchestra è ritornata in studio di registrazione si deve allo sviluppo della tecnologia di questi ultimi anni, che oggi consente la possibilità di crearsi dei sistemi modulari ad hoc, e quindi proprio da ciò è scaturita la voglia di pubblicare un disco che documentasse proprio quei suoni e quelle musiche prodotte da me oggi, con strumenti (sintetizzatori) unici, assemblati con differenti moduli (oscillatori, filtri, effetti, sequencer), di differenti provenienze.
Sono stata adolescente proprio negli anni '80, nel pieno dell'ondata post punk, new wave e pop e sono chiaramente legata ai suoni che si ritrovano in brani come "Rap n' Roll" o "Silver Surfin'", soprattutto perché si sentono le contaminazioni tipiche di quei generi, ma in generale, le contaminazioni di generi che hanno sempre identificato la tua produzione musicale. Ti andrebbe di ricordare come sono nati questi pezzi?
M.M.:Questi due brani hanno origini diverse seppur legati entrambi all’amore incondizionato che avevo per i fumetti. Rap’n’Roll infatti nacque prima come fumetto creato dal mio amico Massimo Mattioli per Frigidaire e poi prese vita come brano musicale, cantato da due rane umanizzate. Silver Surfin, invece nacque in sogno. Sognai letteralmente la melodia, che eseguii la prima volta a New York nella galleria d’arte InRoads. Lo intitolai così pensando proprio al supereroe solitario che vaga nel cosmo con la sua asse da surf. Bé sì, una delle contaminazioni latenti tipiche degli anni ’80 fu proprio il ritorno dopo le lunghe suite e overture dei ’70, alla stringatezza dei ’60 e a sonorità, che potremmo definire retrofuturiste, come il surf elettronico di Silver Surfin’.
Tu sei sempre stato eclettico: hai collaborato con Carlo Massarini, hai creato jingle pubblicitari per le trasmissioni culto Rai degli anni '80. Oggi c'è stato un po' un ritorno a trasmissioni che avevano di fatto segnato la TV degli anni passati e anche Serena Dandini è tornata rivisitando il suo storico programma "La TV delle ragazze". Se ti avessero proposto di "tornare" alla collaborazione televisiva l'avresti fatto e, in caso affermativo, a quali condizioni?
M.M.: Carlo Massarini è un conduttore che ho sempre stimato e che ascoltavo fin dai tempi di Per Voi Giovani e Pop Off alla Radio, ma a onor del vero, non fu una vera e propria collaborazione, semplicemente mise in onda, nella sua Mr. Fantasy il mio Frisk the Frog- Rap ‘n’Roll, tra i primissimi videoclip made in Italy, accompagnandolo con parole d’elogio. Con Serena Dandini invece fui proprio il musicista ufficiale di Oblabì Obladà, la sua prima trasmissione in onda su Rai Uno in prima serata. Poi negli anni mi è capitato a più riprese di lavorare a produzioni televisive, sia per la realizzazione di sigle originali, sia in qualità di consulente musicale. Se nascesse una nuova occasione, intellettualmente stimolante e artisticamente appagante, non avrei alcuna preclusione di sorta.
Torniamo alla tua produzione musicale, soprattutto la più recente. Il primo assaggio del tuo rientro l'abbiamo avuto con la raccolta "The Sunny Side of the Dark Side". All'interno del disco si legge che la tracklist è stata scelta da Christian Zingales, un visionario come te. Come è nata la vostra collaborazione e amicizia?
M.M.:Direi all’insegna della stima reciproca. Ci apprezzavamo a distanza ancor prima di conoscerci. Io avevo letto lui. Lui aveva ascoltato me. Christian oltre a possedere una “voce” giornalistica unica, essere un grande esperto di musica in generale e del mio lavoro in particolare, conosce tutto, ma proprio tutto ciò che ho registrato, meglio di me. Non sto scherzando: è davvero così. Non avrei potuto affidare la tracklist del mio album ad una persona più competente di lui.
Resto un attimo su "The Sunny Side of the Dark Side" perché mi piace molto porre l'attenzione anche su tutto il lavoro creativo che porta alla realizzazione di un album partendo ovviamente dal contenuto (quindi dai brani) e arrivando alla cover e al package che sono altrettanto importanti. Ci sono casi di album molto, molto belli che, proprio a causa di copertine apparentemente non azzeccate, non hanno avuto il successo sperato (il primo che mi viene in mente è "McDonald & Giles" con la copertina rosa delle foto di loro due che passeggiano con le loro ragazze). I tuoi format sono sempre molto curati: ci sono sempre un po' di storia, qualche frase interessante, foto e, come in questo caso, all'interno le copertine dei tuoi album. Come nascono i concept delle tue copertine e dei package dei tuoi album?
M.M.:Il cosiddetto artwork per me riveste un’importanza particolare è sempre qualcosa che tengo in grande conto e che spesso vive di vita propria, cioè non è mai né la descrizione dei contenuti dell’album, né l’interpretazione visiva degli stessi, ma qualcosa che viaggia in parallelo in una galassia lontana lontana. Discorso a parte meritano i live dove l’aspetto documentale prende il sopravvento e diventa prioritaria la traduzione in scatti (sebbene anch’essi particolari) che catturino momenti topici dell’atto performativo. Sono d’accordo con te “McDonald & Giles” è un grandissimo disco, che tra l’altro fa capire molto bene quale fosse la vera paternità del sound di “In The Court of the Crimson King” con buona pace di Fripp. Tutta la tessitura strumentale, con quei favolosi impasti timbrici morbidi e misteriosi si deve a quei due straordinari musicisti. Tra l’altro la copertina non mi dispiaceva nemmeno, la consideravo parente alla lontana, ma solo in termini di colore e non di soggetto, di quella di Hot Rats di Zappa.
Passerei ora a "Post_Human Folk Music", partendo dai suoni presenti nell'album, attraverso il brano: "Another Eyebrow in Cursed Fair". In questo brano ho trovato suoni decisamente più coerenti con un'impostazione prog, al limite della psichedelia di matrice Syd Barrett e pinkfloydiana. La ritieni una chiave di lettura coerente al tuo intento?
M.M.:Allora dovresti sentire un brano che ho appena inciso e comparirà sul mio prossimo album per Spittle: Tarantella delle otto mogli cannibali di Enrico Saurus Rex. Non so se rendo l’idea. Certo i primi Pink Floyd come del resto, e forse ancor di più, i primi Soft Machine, sono parte integrante del mio imprinting, quindi può anche essere che, mio malgrado, di tanto in tanto possano esplodere incontrollabili lapilli barrettiani, ben vengano. Però, in questo caso specifico, devo dire che l’ispirazione primaria nasceva esclusivamente da Terry Riley e dal suo A rainbow in curved air.
"Visioni di suoni e di note oltre le realtà distopiche": queste sono le parole citate nel libretto di accompagnamento all'album. In effetti, la maggior parte degli artisti si pone come obiettivo la ricerca dell'utopia del suono, quindi del suono perfetto. Tu ti poni esattamente all'opposto. Lo si comprende perfettamente leggendo le tue parole all'interno dell'album: "Si potrebbe addirittura osare dire, senza tema di smentita e con buona pace dei cultori della cosiddetta buona musica ben registrata, che oggi non esista musica che non sia artificiale, compresa la classica e l'operistica". Deve essere davvero così "estrema" la scelta dei suoni ai giorni nostri?
M.M.:Naturalmente no. Ma che nessuno si pensi detentore assoluto di una supposta autenticità super partes. C’è chi è convinto di fare vera musica ma in realtà sta realizzando semplicemente “vecchia” musica suonata e registrata, solo tecnicamente, bene, solo cronologicamente, oggi. Una cantante con un’estensione di tre ottave, non è necessariamente una grande interprete, anche nel caso sappia governare abilmente il proprio talento. Se il virtuosismo (tecnico e tecnologico) non è strettamente connesso alla sostanza musicale, difficilmente si otterranno espressioni di autentico valore. Spesso in campo musicale sembra prevalere ancora la logica del “più salgo e più valgo”, credo piuttosto che una musica che esprima la contemporaneità, sarebbe sempre auspicabile fosse ripensata a partire da ciò che il presente davvero è, e non da ciò che avrebbe potuto essere e che invece non è.
Arriviamo al tuo ultimo lavoro pubblicato: "The end of the beginning/the beginning of the end" Un EP nato da una collaborazione live con ODRZ, band Industrial Noise Music. Sperimentare con la Industrial Music ti ha permesso di estremizzare la tua idea di musica distopica, artificiale, imperfetta oppure, come si dice: "The sky is the limit"?
M.M.:Direi piuttosto che ogni mio lavoro mi piace considerarlo come fosse parte di un unico grande disco. In questo mi sento affine ai Beat della letteratura. Scrivere come del resto scrivere musica, è un po’ come domare una bestia indomabile, cavalcare un ininterrotto stream of counsciousness. Per quanto riguarda la collaborazione con ODRZ, posso dirti che nasce anch’essa prima da un’intesa umana e poi artistica. In questa fase della mia vita è forse la precondizione più importante. Simpatia a parte, Massimo e Antonio sono anche due veri artisti con cui ho collaborato e collaborerò sempre con grande piacere e questo disco è stata anche un’occasione importante per tutti noi di assemblare due realtà, solo in apparenza, agli antipodi, in un progetto organico con una sua propria ragion d’essere.
Essendo da sempre uno sperimentatore di suoni e pioniere musicale una domanda, a conclusione, è d'obbligo: guardandoti intorno, pensi che esista ancora la voglia di fare musica in Italia?
M.M.:Più che mai in Italia c’è il desiderio di esprimersi con la musica. L’Italia è ricca di straordinari talenti, mortificati dall’assenza totale (o quasi) di istituzioni qualificate che li sostengano e li promuovano, come uno dei patrimoni più rilevanti del nostro paese. Oltremodo, per quanto riguarda la formazione, spesso si assiste ad una ancor più penosa ristrettezza di vedute. Certamente ci sono realtà che provano a fare e a far bene, ma restano purtroppo casi isolati, frutto di titanici sforzi individuali e che, in senso più generale, non si può dire facciano ancora testo. Non è possibile, ad esempio, che in Italia i cosiddetti Talent abbiano, con il loro modello totalmente diseducativo se non addirittura nocivo in termini artistici, sopperito ad una carenza diffusa di un’educazione musicale completa. La musica non è soltanto canzone, canzoncina o canzonetta mainstream, ovvero strofa/ritornello/strofa/ritornello/ponte e modulazione finale e applausi e standing ovation e per noi è sì, ma molto molto più di quella roba lì, spiegata male, insegnata peggio e poi interpretata di nuovo con tutti i peggiori clichè, come in una piccola scuola per mostri che trasforma adolescenti di belle speranze in mestieranti privi di fantasia e già logori, che hanno perso l’innocenza prima ancora di iniziare, e che nei migliori dei casi appaiono come protagonisti del triste scimmiottamento di uno showbiz, culturalmente, socialmente ed economicamente, per noi inarrivabile. Per certi versi, e devo dire per fortuna, esiste anche una Trap nata spontaneamente, che non duetta con cantautori e interpreti bolliti, o uno come Achille Lauro, l’unica cosa veramente decente, che meritasse di esser vista a Sanremo. Ragazzi: tenete duro, non fatevi addomesticare mai. Proteggere la nostra cultura non può significare soltanto cantare in italiano, ma sostenere l’autenticità e l’originalità dei nostri artisti, anche cantassero in Swahili. Certo è che, più ignoranza e pregiudizi permangono nei ruoli chiave, più sarà difficile che queste qualità, possano essere, in qualche misura, intercettate e quindi trovate negli artisti di casa nostra. Proteggere la nostra cultura è una raccomandazione da rispedire al mittente, con ricevuta di ritorno. Siamo tutti d’accordo, certo che sì: proteggiamo la nostra cultura. Cominciate voi però, noi (cornuti e mazziati) la cultura la stiamo già facendo. A nostre spese.