interviste
Ermanno Labianca DIschi, libri, giornali, TV: le molte facce di Ermanno Labianca
Incontrare Ermanno Labianca è un autentico piacere: prima di tutto incontriamo un appassionato di musica, e questo amore pervade ogni mezzo con cui si esprime lo scrittore, produttore, giornalista e autore televisivo. Ascoltiamolo, per capire meglio non solo la sua personalità, ma anche il mondo della musica.
D. Innanzitutto, grazie per aver accettato di chiacchierare con me! E poi, prima domanda: cosa ti ha spinto verso la musica, e quando?R. I primi Festival di Sanremo, quelli in bianco e nero in cui vedevo Little Tony e Bobby Solo. Ero davvero piccolo, non prendermi per un matusalemme. Qualche anno dopo giravo con un mangiacassette, il mio amico inseparabile. Mescolavo Battisti e i Beatles, quelli i primi impulsi. Poi in un negozio scoprii per caso un nastro dei Creedence Clearwater Revival. Mi ero innamorato della commessa, che era più grande di me e non mi si filava proprio. Avrebbe potuto vendermi qualsiasi cosa, ma, non so perché, mi fece ascoltare quel disco lì. Fu una fortuna. Mardi Gras conteneva “Someday never comes”. Fu amore a primo… ascolto. Ed entrò anche l’America nella mia vita. A tredici anni ci andai proprio, laggiù, con mia madre e i miei nonni a conoscere una parte della nostra famiglia. Feci altre scoperte, tra New York, le zone a nord della città e le cascate del Niagara. Le radio mandavano un soft rock che qualcuno potrebbe contestare, ma di cui mi innamorai. E poi le voci di Simon & Garfunkel, gli Stylistics… quando la black music era qualcosa di significativo.
D. Il tuo percorso di giornalista ha avuto varie fasi, ma sempre nel segno del rock. Quanto e come ti sembra cambiato rispetto a quando hai iniziato?
R. Il giornalismo musicale o il rock? Entrambi direi. Il contesto è cambiato enormemente, e tutto ciò che ne derivava di conseguenza è cambiato. Le passioni seguono altre dinamiche, chi ha l’età che avevo io, quando iniziai a comprare i dischi, oggi fruisce la musica in maniera diversa, non la definirei una fruizione più distratta, perché poi ognuno conosce la propria anima e i propri sentimenti, ma è indubbio che si sia persa quella fiamma che ha alimentato le generazioni precedenti a quella dei ragazzi che oggi hanno quindici, vent’anni. La discografia ha modellato un nuovo sistema, adatto ai tempi. Il pubblico, dal canto suo, si alimenta in maniera più disordinata. Ecco, è il disordine a colpirmi, quell’eccessivo frazionamento dei prodotti, tra social che aiutano la diffusione ma spoetizzano tutto, pubblicità, una promozione troppo invasiva e la frequenza delle pubblicazioni, che per una certa tipologia di artisti è davvero troppo frenetica. Mi fa tenerezza e rabbia vedere tanti artisti costretti a presentarsi ogni giorno, con foto, informazioni e purtroppo anche sciocchezze in quantità sui loro profili. Per esistere, per non farsi scavalcare da altri, per tenere viva l’attenzione, per alimentare il mercato dei concerti, rimasta la fonte primaria del loro sostentamento, giacché i dischi sono stati resi poco efficaci dal sistema di cui sopra. Sono lì, servono a scatenare l’attenzione, a generare la prima scintilla, ma non sono più il centro di tutto come accadeva un tempo, quando uno stadio era una conquista per pochi, una consacrazione. Oggi a San Siro c’è un traffico quasi irritante.
D. Parliamo un po’ della tua esperienza come autore televisivo. Come è iniziata? Cosa ti fa continuare a collaborare in un medium tanto diffuso, e discusso, come la TV? E qual è stata la produzione che ricordi con maggiore piacere?
R. È iniziata in maniera rocambolesca, anche sulla base concreta di una passione accertata e già matura per la musica. Ero nella hall di un hotel, avevo accompagnato la mia fidanzata di allora a un provino per una pubblicità. Mi misi a chiacchierare con un tipo, il quale venne raggiunto da Piero Chiambretti. Il tipo si chiamava Maurizio Stanzani, era un bolognese con le mani in tante cose, un tipo che, se non fosse morto prematuramente, oggi sarebbe un grande produttore. Con lui si finì per parlare di musica, visto che io avevo alle spalle diverse collaborazioni con riviste del settore (Il Mucchio Selvaggio, Velvet) e di televisione. Tutti, per un motivo o per altro, eravamo lì per faccende legate alla tv. Il passo fu breve. “Ti va di darmi una mano, dovrei organizzare un cast per un programma televisivo”. “Quando?”, risposi? “Mancano dieci giorni”. Così dieci giorni dopo, la notte di fine anno, ero in uno studio a Via Teulada con Luciano Rispoli e tanta gente. Mi era stata utile la mia piccola agenda di contatti esteri maturati attraverso l’esperienza di produttore discografico di un gruppo emiliano, i Rocking Chairs, con i quali avevamo registrato a Nashville e New York.
Sono trent’anni e più che lavoro in tv. L’anagrafe e il percorso dicono che sono tra i più esperti, ma non si finisce mai di imparare, parlo della materia, ma anche dei comportamenti. Bisogna sempre cercare di essere adatti e misurati rispetto a quello che si fa, nulla è scontato. Almeno, io la penso e la vivo cosi. Mi preparo per ogni avventura che mi attende, non manco di documentarmi sui colleghi con i quali mi troverò a condividere anche un fazzoletto di tempo. Lo faccio per rispetto, anche. Cerco di non lasciare niente al caso. Di produzioni ne ricordo davvero tante, i programmi firmati non li conto più. Il clima del Concerto per il Primo Maggio mi si addiceva, l'ho fatto negli anni di Claudio Bisio, di Paolo Rossi che conduceva in coppia con Claudia Gerini nell'edizione in cui venne a Roma Chuck Berry. Poi gli show con Fiorella Mannoia, Morgan, Enrico Ruggeri ("Gli occhi del musicista", che riprenderemo nei prossimi mesi), Claudio Baglioni. Forse i due Festival con Claudio direttore artistico e conduttore sono più in alto di tutti visto anche quello che ti raccontavo prima, ovvero che io quella tv, quelle dinamiche, le ho annusate che ero un bambino e mai avrei potuto immaginare di finire un giorno all'Ariston, peraltro in una squadra cosi importante. Una striscia cui guardo con grande affetto sono i nove Eurovision fatti dal 2016, che mi hanno portato in luoghi come Kiev e Tel Aviv dove forse non tornerò più, ma che porto nel cuore, per tanti motivi.
D. Route 61 music: un azzardo, una storia d'amore, un'avventura?
R. Tutte e tre le cose. L’azzardo è relativo, perché si investe in maniera molto misurata e si muovono piccole cifre. Di avventuroso c’è poco, perché io e i miei soci non possiamo permetterci troppi lussi e scommesse. Restiamo perlopiù nei paraggi della musica che amiamo, ovvero quel territorio che include il blues, il folk, il largo genere songwriter, con qualche escursione nella musica d’autore italiana, vedi Graziano Romani, Daniele Tenca, i Lowlands, Fabio Melis, Matteo Maione (qui il suo recente video ), e diversi altri. Nei Novanta, dopo aver lavorato per la Ala Bianca di Modena, fondai la Totem Records per un paio di prodotti: l’omaggio a Springsteen intitolato “For You” e l’album del calciatore rocker Alexi Lalas, se ti ricordi di lui. La Route 61 è arrivata una decina di anni dopo e siamo ancora qui. Abbiamo pubblicato dischi di Elliott Murphy, Carolyne Mas, Eric Bibb, Chris Cacavas, Will T. Massey, Larry Campbell & Teresa Williams, Marcus Eaton, e nei tributi che abbiamo pubblicato (a David Crosby, a CSNY, a Townes Van Zandt) ci sono musicisti e artisti di alto valore, da Judy Collins a Karla Bonoff, da Willie Nile a Steve Wynn.
D. Moltissimi tuoi libri parlano di Bruce Springsteen: come è nata questa passione? Come giudichi la sua attuale ricerca del contatto live col pubblico?
R. Sì, sono tanti. Ma ricordo sempre che ognuno è il frutto di una spinta differente, di una voglia di comunicare ogni volta qualcosa di nuovo. Ho tradotto e commentato i suoi testi in tre volumi per Arcana, ho scritto una biografia estesa per Giunti a inizio anni Duemila, poi ho raccontato i luoghi in cui si è formato Springsteen e dove si è sviluppata la sua musica. Recentemente ho riassunto tutto in “Bruce Springsteen 50: 1973-2023”, per analizzare nuovamente tutto, riorganizzare e aggiungere, per coinvolgere una schiera di commentatori e narratori che con me potessero celebrare il primo mezzo secolo di carriera di uno tra i musicisti più amati e influenti del suo tempo. Un talento naturale e istintivo, quello di Springsteen, che mi ha affascinato da subito. Lo considero divulgatore, per la mia generazione, un contenitore di tante culture musicali, dal primo rock’n’roll al soul. Ha avuto la sua funzione, fino a un certo punto. Mentirei se ti dicessi che su di me ha oggi lo stesso effetto che ha avuto nei decenni passati. Tutto cambia nella vita, tutto si modifica, anche l’approccio a quello che è stato un nutrimento essenziale. Non mi aspetto più il disco determinante e deflagrante come lo sono stati i suoi primi e un paio di altri seminati nel corso degli anni, mi auguro che limiti i passi falsi. È cambiato il contesto intorno a lui, anche quello, certo, molti suoi compagni di viaggio non ci sono più, l’affaticamento è percepibile e la voglia di rischiare è poca. Si va di stadi con troppa frequenza. Del resto la domanda ancora è altissima e comprendo con un filo di rammarico che un resize della proposta non è semplice.
D. Ancora su Springsteen, ma anche su Dylan, e sui cantautori americani. Qual è la loro eredità? C'è qualcuno che la sta raccogliendo?
R. Mi sono fatto un grande regalo a raccogliere centinaia di nomi in “Like a Rolling Stone: quarant’anni di cantautori americani” (2004). Ho voluto cementare in quelle pagine il mio amore per quella scuola. Superando lo sconcerto per il tempo che passa e che mi fa osservare una generazione già decimata e comunque destinata a resistere - quanti anni ancora? –, provo a guardare avanti e non vedo quel talento, quell’unicità, quel senso di forza primitiva che ha generato i dischi che più mi hanno formato. Morto Tom Petty, che per me era il più potente crocevia tra i Beatles, i Rolling Stones, i Byrds, la psichedelia, Bob Dylan e Bruce Springsteen, oggi ci sono Lucinda Williams, Jesse Malin a cui auguro tutto il bene del mondo e la forza di riprendersi, Ryan Adams e qualcun altro a muovere a tratti la mia attenzione, ma non sono ragazzini sui quali contare per un lunghissimo futuro, e poi hanno camminato e camminano sulle orme di chi era passato prima. Non mi sento proprio di parlare di eredità. Non dovremmo proprio parlare di eredità. Quella musica non è più centrale, non ha più sussulti, ci appigliamo più ai ricordi che alla speranza di vedere quel movimento rigenerarsi. È triste ma io la vedo cosi. C’è ancora qualche band a stimolarmi: i Counting Crows, i Black Crowes, recentemente i National, che hanno un suono crossover tra l’America e l’Inghilterra.
D. La canzone italiana come sta, a tuo parere?
R. C’è una rispettabilissima schiera di autori che tengono viva la scena e le danno dignità, penso a Diodato, Motta, Levante, Brunori SAS, Renzo Rubino. Ma il rumore più forte lo fa la schiera del pop, su cui ci sarebbe molto da dire. Per me nonostante il clamore è molto in affanno. Veniamo travolti da prodotti assai grossolani, soprattutto in questa stagione.
D. Ultima domanda, anzi due: qual è il tuo ricordo musicale più intenso? E il tuo progetto futuro a cui tieni di più?
R. Il ricordo più intenso rimane quello di me ancora minorenne che vado a Londra col treno, prendo una stanza a Warwick Avenue e mi dirigo col mio amico verso un aeroporto fuori città. Sei del mattino, dormono tutti nei sacchi a pelo perché sono lì dal giorno prima. Noi piano piano raggiungiamo le prime file e ci piazziamo lì. Il festival schiera Graham Parker, Joan Armatrading, Eric Clapton fresco di “Slowhand”, e Bob Dylan, che non suona in Europa da dodici anni, dai famosi concerti inglesi del 1966. Se vedi Dylan a diciassette anni è un’iniziazione. Nulla ti scuoterà di più. Il progetto futuro, ammesso che riesca, ha a che fare con il rock’n’roll. Questo è più che certo.
(FOTO DANILO D'AURIA; Labianca è al centro, tra Chris Cacavas e Steve Wynn)