Virginiana Miller

interviste

Virginiana Miller

02/07/2003 di Andrea Salvi

#Virginiana Miller#Italiana#Canzone d`autore Pop Folk Indie

I Virginiana Miller ci piacciono, eccome. Leggete fino in fondo l’intervista che abbiamo fatto al cantante del gruppo Simone Lenzi per scoprire perché. Se proprio siete impazienti andate subito all’ultima domanda, rischiando però di perdervi il resto...
  
    Interviste:

                   
VIRGINIANA MILLER
I Virginiana Miller ci piacciono, eccome. Leggete fino in fondo l’intervista che abbiamo fatto al cantante del gruppo Simone Lenzi per scoprire perché. Se proprio siete impazienti andate subito all’ultima domanda, rischiando però di perdervi il resto...
Simone, tu che dei Virginiana Miller sei il cantante, puoi presentare al mondo intero il gruppo e la vostra storia?
Rimando tutti a http://www.virginianamiller.it/bio.htm , perché davvero di raccontarla non ne possiamo più. Abbiate pazienza. Non siamo ancora così vecchi dal provare piacere a rievocare per la millesima volta gli anni verdi.

Il vostro nuovo album “La verità sul tennis”, appare all’ascolto più omogeneo e organico dei precedenti, quasi la rivincita di un pop atipico sulla cerebralità dei primi dischi. Si tratta di una scelta maturata durante il suo concepimento oppure di una casualità?
Direi una casualità, siamo sempre estremamente poco programmatici nelle cose che facciamo. Si cerca di salvare sempre la spontaneità. Forse però è vero che i pezzi sono nati in un periodo emotivamente felice per il gruppo e di questo il lavoro ne ha risentito positivamente. A registrare questo disco ci siamo divertiti da matti. Abbiamo goduto davvero.

Diversi produttori tra i più interessanti in circolazione quali Marc Simon, Giorgio Canali e Amerigo Verardi hanno contribuito alla concretizzazione di un vostro suono e uno stile personali. Quale apporto hanno rispettivamente offerto al gruppo nei lavori ai quali hanno collaborato?
Marc ci ha insegnato la bellezza dell’errore e una certa indulgenza verso l’inatteso, Giorgio ci ha insegnato a tirar fuori le palle quando serve (le lettrici scusino l’espressione fallocratica ma non me ne viene una migliore per esprimere il concetto), Amerigo a mettere le ‘virgole’ nei suoni. Questo ultimo lavoro, prendendo a prestito il nome dal brano d’apertura, lascia sottintendere un’inquietante realtà…
Beh, inquietante non direi… molto umana, piuttosto.

“La verità sul tennis” ha il pregio di possedere pure una copertina di ottima fattura. Com’è nata l’idea di un’immagine dal taglio tanto ricercato?
Noto una certa ironia… la verità è che siamo cresciuti sbirciando le copertine di Fausto Papetti e le pagine dell’intimo di Postalmarket… tutti i fantasmi prima o poi ritornano.

No, dico davvero! Ti chiedo un parere forse scontato: quanto è difficile per un gruppo come il vostro riuscire a far sentire la propria voce a livello nazionale partendo da una dimensione provinciale come quella di Livorno?
La dimensione provinciale riguarda tutta l’Italia, ad eccezione forse di Milano. L’Italia è tutta provincia. Personalmente amo la provincia e se questo significa che abbiamo mangiato il sushi con qualche anno di ritardo, beh, pazienza. Forse tutto questo si sconta, ma esiste la tecnologia per evitare la morte civile. Il nostro pubblico non è una folla oceanica ma è diffuso lungo tutto lo stivale, isole comprese. C’è un pezzo del vostro secondo album che suggerisce una nostalgia amara per la provincia: “Parenti lontani” parla di questo, vero?
Indubbiamente si. E si riferisce soprattutto al numero infinito di artistucoli che ho conosciuto in vita mia, molti dei quali miei ex amici, che si riempivano la testa di sogni escapisti e pensavano di andare a Parigi, Londra o New York per trovare il riconoscimento che pensavano di meritare. Tornavano puntualmente a Livorno dopo aver finito i soldi di mamma. Quali sono i tre vostri brani ai quali vi sentite più affezionati e per quale motivo?
Non si può dire, gli altri brani poi ci rimangono male e vengono male dal vivo! Per quanto mi riguarda ho provato una forte emozione quando ho cantato per la prima volta il testo di “l’estate è finita” sulla musica che avevano scritto i ragazzi. E’ stato un bel momento.

Parliamo dei vostri testi. Avete una spiccata abilità nel plasmare in maniera del tutto personale la lingua italiana, cosa che a mio parere consacra le vostre liriche tra le migliori o comunque tra le più notevoli degli ultimi anni…
Più che rispondere, arrossisco.Posso dirti però che a scrivere un testo ci metto sempre un’infinità di tempo e alla fine devo essere contento di ogni singolo verso o sul disco non ci finisce. Scrivere i testi delle canzoni è la cosa per cui vivo, se non lo facessi sarei un disgraziato. E’ la cosa che mi ha salvato la vita.





In questo gioco convivono un acuto senso ironico e sensazioni ora di profonda malinconia, ora di sollievo: penso a “L’agente al Cairo” oppure a “Placenta”…
Questo forse rispecchia un lato del mio carattere: devo prendermi in giro da solo un bel po’ prima di convincermi che qualcosa di quello che ho fatto è capace di resistere al mio sarcasmo. Detesto quelli che si prendono troppo sul serio. Non sono un artista maledetto, ringraziando il cielo. Sono una persona normale che però è portata a vedere il lato comico delle cose tragiche e il lato tragico delle cose apparentemente innocue.

Paradossalmente sia chi vi adora che chi non vi sopporta indica queste peculiarità come il principale motivo di amore o odio, che ne pensate?
Che è giusto così. Significa che facciamo qualcosa che ha una sua identità, che suscita una reazione. Di noi nessuno dirà mai che facciamo cose ‘carine’ come innanzitutto e per lo più si dice in giro di troppe cose.

Nei vostri testi è perenne il richiamo all’infanzia, o comunque un’epoca in cui forte era il richiamo simbolico esercitato da forze esterne: i parenti, la televisione, il cortile di casa, la stazione ferroviaria, gli altri in generale…
E’ vero. Non credo però sia frutto di nostalgia. Gli anni settanta in cui sono cresciuto avevano una loro bellezza ma furono anche anni terribili. Non ho nostalgia della paura che si palpava in giro il giorno in cui rapirono Moro, per esempio. Credo invece dipenda dalla necessità di recuperare una dimensione di stupore, la capacità stessa di stupirsi… e questa è una dote infantile che si perde col tempo. A me di cambiare il mondo non me ne è fregato mai nulla, mi è sempre bastato descriverlo. Ho cercato di descrivere quella porzione minuscola di mondo che conosco con tutto l’amore di cui sono capace: le forze in campo non sono mai le mie. A me piace guardare.

…non a caso il vostro primo album si apre con un brano dal titolo emblematico: “Curriculum”, che poi rappresenta il primo vero passo per distaccarsi da quel mondo e mettersi in gioco: da quel punto in poi tutto è alienazione?
Il mondo del lavoro è diventato una prigione senza finestre. Pensa a tutte queste palle sulle certificazioni. La certificazione di qualità è in realtà la certificazione che la tua azienda ha finalmente raggiunto quegli standard di disperazione che ti rendono pronto per tuffarti in Europa con una pietra al collo.

Dal vivo qualche anno fa mi avevate colpito per il rigore e lo spleen che dal palco siete riusciti a trasmettere al pubblico. È cambiato qualcosa nella vostra dimensione concertistica dai passati tour a oggi?
Forse sbagliamo meno e abbiamo preso più confidenza col palco. Ma non abbiamo perso la santa fifa di montarci sopra e penso che questo si traduca in una certa ‘presenza’, nel fatto cioè che ci siamo emotivamente.

Il disco “Salva con nome” testimonia che la vostra musica non perde nulla del suo fascino anche con un assetto acustico. Quanto di questa esperienza avete effettivamente “salvato con nome”?
Spero il più possibile. Un’ esperienza acustica in questo momento non ci interesserebbe più, forse, ma è stato un bel momento per il gruppo, ci siamo dati la prova di credere nella bontà di quello che facevamo, nonostante le difficoltà. Insomma ci siamo chiesti se avremmo rifatto tutto da capo, e ci siamo risposti che lo avremmo rifatto un milione di volte.

Una curiosità: cosa leggono i Virginiana Miller? In parecchi vostri brani convivono suggestioni tra le più disparate e disperate: dai romanzi gialli da quattro soldi a Leon Battista Alberti, fino al Goethe di “Viaggio in Italia” il vostro è un tentativo di riattualizzare in chiave postmoderna il gusto per una letteratura viva…
Parlando a titolo personale posso dirti che adesso leggo molto meno, ma fino a trent’anni ho divorato libri. Ero capace di andare in vacanza a Londra e non vedere niente di Londra perché avevo trovato un remainder e di passarci tutti i pomeriggi. Ecco, facevo cose così. Ma ora mi sembra storia antica. Leggo ancora, ma non ho più l’ingordigia di qualche anno fa… però ho sempre cercato di evitare la pesantezza e la cerebralità quando scrivo. Detesto quelli che riempiono i testi di parolone. Quando cito lo faccio sempre discretamente, le allusioni colte sono sempre nascoste. Le persone non si misurano per i libri che hanno letto e la cultura non dovrebbe servire per allontanare gli altri.

Per concludere ti lascio uno spazio libero nel quale puoi indicare ai lettori di Mescalina qualche motivo valido per avvicinarsi ai Virginiana Miller…
Perché siamo bravi senza essere furbi. Perché siamo ingenui senza essere stupidi. Tutto qui.

Grazie per la disponibilità, la passione e la sincerità. Ci piacete per questo.