Wlodek Goldkorn

Wlodek Goldkorn Il bambino nella neve


Feltrinelli, 2016 Narrativa Straniera | Romanzo | romanzo storico biografico

12/07/2016 di Silvia Morganti
Neve è caduta, senza luce. / Schenee ist gefallen, lichtlos.” è scritto in una poesia di Paul Celan:  “mi scottò la neve / brannte der Schnee mich”. Parole che fanno da corto circuito, richiamando alla mente anche un film recente di bellezza straordinaria: Ida di Pawel Pawlikowski, ambientato nella Polonia di inizio anni Sessanta, in cui le vicende della Seconda Guerra mondiale bruciano ancora sotto la coltre di neve, riguardando anche lì una fuga, un viaggio, dei segreti, una zia e un bambino.

Ecco alla lettura del libro di Wlodek Goldkorn Il bambino nella neve riaffiorano diversi rimandi.

Del resto è un testo che fa i conti con la memoria, la storia. È un testo che affronta il vuoto che la Shoah rappresenta: “Capii che ci sono dei vuoti che nessuno sforzo di immaginazione può riempire. Eppure, quei vuoti vanno riempiti. Se no che ci facciamo in questo mondo, noi figli della Shoah?” (p. 30). Figlio della Shoah è, dunque, l’autore, nato in Polonia agli inizi degli anni Cinquanta, di religione ebraica, che sul finire degli anni Sessanta (precisamente il 10 settembre 1968) lasciò la sua ‘patria’ per trovarne una, dopo diverse esperienze in terre straniere, in Italia, a Firenze. Un nome noto e stimato del giornalismo e della cultura italiana, capace di scrivere un libro personale, biografico, apparentemente di storia con la ‘s’ minuscola, ma in realtà in continuo dialogo con la Storia e l’attualità. Un diario di memorie e un reportage. Un raccontarsi e insieme un raccontare non solo se stessi, ma un mondo.

L’importanza di questo libro risiede anche nel suo stile e non solo nel racconto: la scrittura è letteraria, è “cura per le parole” (p. 81), ma lucida quale quella dello storico, del giornalista di mestiere. Goldkorn non si lascia prendere dalle vicende della propria famiglia, come se il suo disegno fosse molto più ampio e tale disegno si realizzasse attraverso i suoi passi di uomo in viaggio nella memoria e nell’Europa, a partire da un centro che è sì la famiglia stessa, Katowice (la città dove è nato), da cui si irradia però tutto il resto: l’amicizia, gli incontri, la poesia, la letteratura, gli spostamenti, i luoghi e gli eventi storici di cui si riferiscono nomi e date. Tutto parla attraverso lingue, parole, etimologie che hanno il sapore di polacco, di ebraico e di yiddish nelle sfumature del ricordo. Il ricordo non è estraneo al racconto del presente, si intreccia ad esso, ma entrambi conoscono silenzio e vuoto.

Si tratta di un ricorso alla memoria, come soggetto in grado di essere vigile sentinella capace di avvisare quando il pericolo della ‘tragedia’ si avvicina o ci è minacciosamente accanto: la memoria può mettere in guardia e, dunque, salvare, purché se ne faccia “un uso politico” (p. 41) che significa anche riconoscere che la storia è sì “contraddittoria e la memoria condizionata dal punto di vista di chi ne è portatore” (p. 51).
La memoria ha una funzione precisa: “fare scandalo”, come l’autore ha potuto imparare da Marek Edelman (figura straordinaria, protagonista della rivolta del ghetto di Varsavia nel 1943, unico sopravvissuto, nonché amico-maestro dell’autore). “Ma bisogna saperla usare alla maniera giusta. Giusta eticamente, esteticamente, politicamente” (p. 117). Goldkorn scrive:  “Preferisco che la memoria sia abitata da fantasmi, ombre, immaginazione; diffido di chi vuole che il ricordo sia verificato. La memoria è tale quando è avvolta nella nebbia e soggetta a cambiamenti, vale a dire quando è viva” (p. 63). La memoria è viva.

Occorre, infatti, dire che nonostante la morte attraversi le pagine del libro,  rimanendo indicibile, è però la vita al centro di tutto: anche quando si è costretti a percorrere i luoghi del Vuoto assoluto, delle camere a gas, dove migliaia di ebrei polacchi e non solo sono passati (di cui “malgrado tutti i nostri sforzi, non sappiamo niente” p. 168), è lì che si ha la percezione dell’essere comunque e sempre aldiquà della morte, nella vita. Anche nella percezione di confine, di abisso che non si può dire, rimane la distanza salvifica, una sottile linea non attraversabile, dove affiora però la possibilità di “ribellione”, “contestazione”, nonché il dovere di “affacciarsi sull’abisso” (p. 139).

Non si vuole nemmeno mostrare ciò che l’abisso è stato: si prediligono le foto di piccolissimo formato alle gigantografie, perché si tratta sempre di rispetto delle vittime. E di queste ultime si ricorda che “le vittime sono solo i morti”  e nessuno ha diritto di sentirsi tale, anche lo stesso autore capisce di non essere “vittima, ma soggetto della storia” (p. 128).  Il  viaggio della memoria ad  Auschwitz, Bełżec, Sobibór, Treblinka che segna la seconda parte del libro,  allora è compiuto lontano da ogni retorica,  in grado di offrire uno sguardo umano e critico insieme: in grado di distinguere anche ad  Auschwitz tra ciò che è museo (“costruzione culturale che molti vorrebbero scambiare per epifania dell’autenticità” p. 143) e ciò che è  Storia, che coincide però anche con “cimitero”, con “il camminare sulle ceneri dei miei cari” e, dunque, pur sempre con una storia personale, familiare, biografica.

Il libro segue un cammino tortuoso, forse perché al pari dell’ebraismo “è tempo e non luogo”. Le foto di Neige De Benedetti anticipano ogni capitolo, fissando un particolare, prediligendo le sfumature e un alone di silenzio.