Vincenzo Staiano

Vincenzo Staiano Solid. Quel diavolo di Scott LaFaro


Arcana, 2021, pp. 176, 16 euro Musica | Biografie

18/01/2022 di Franco Bergoglio
È cosa nota: nella mitologia del rock esiste il “27club”, esclusivo, ma mortifero ritrovo per star morte ben prima dei trent’anni. Tra i grandi scomparsi al compimento del ventisettesimo compleanno dobbiamo annoverare la sacra quadrimurti del rock: Janis Joplin, Brian Jones, Jim Morrison, Jimi Hendrix; rinforzata negli anni successivi da Kurt Kobain e Amy Whinehouse e, dall’alto del suo crocicchio, dallo sguardo del padre-blues, il sulfureo Robert Johnson.

Il jazz la vita spericolata l’ha fatta propria per decenni, ma la musica ha sempre avuto il sopravvento sull’agiografia; neanche nel caso più emblematico e più abusato in questo genere di approccio, quello relativo a Charlie Parker, le sventure di una esistenza da tossico hanno potuto offuscare la sua grandezza artistica. Lo scrittore Geoff Dyer in una pagina particolarmente acuta di Natura morta con custodia di sax ha tirato in ballo un tributo di sangue imposto dal jazz ai propri adepti che ha mietuto le giovani vite di Herbie Nichols, Oscar Pettiford, Eric Dolphy, Lee Morgan, Fats Navarro, Booker Little…

Elencati così, sono un numero impressionate; parlando del trombettista Clifford Brown, morto a 25 anni in un incidente stradale –proprio come Scott LaFaro, il protagonista di questo libro - Dyer ha scritto: “considerate che se Miles Davis fosse scomparso in simile età, oggi non ci resterebbe nulla di suo dopo Birth of the Cool”. Scott LaFaro, la cui vita viene raccontata da Vincenzo Staiano in Solid. Quel diavolo di Scott LaFaro, ha subìto lo stesso destino del trombettista: stroncato da un incidente a 25 anni. Solo 25 maledetti anni e un pugno di incisioni come comprimario di lusso. Non è “sbocciato” come leader, non si è potuto esprimere compiutamente come compositore, è scomparso troppo presto e ci lascia il rammarico –ecco il senso delle parole di Dyer- di non poter neanche lontanamente immaginare cosa e come Scott LaFaro avrebbe potuto fare e sarebbe potuto evolvere.

L’altro caso simile riguarda il chitarrista Charlie Christian: anch’egli morto a
25 anni, avendo aperto la strada alla chitarra jazz senza poter concretizzare le premesse di un simile incendio appiccato. Il libro di Staiano si pone il compito di raccontare rispetto a Scott LaFaro qualcosa su questi cosa e come, sui tanti se e ma di un musicista (non per colpa sua) quasi completamente inespresso. Il
lavoro di Staiano non si configura come una classica biografia (e d’altronde in una vita così breve forse non avrebbe senso); è invece un documentato “ritratto d’artista da giovane” in grado di metterne in luce gli aspetti formativi, le passioni, gli incontri con i grandi artisti come Stan Getz o Hampton Hawes che lo hanno
voluto nei propri gruppi e i numi tutelari con i quali ha potuto incidere, come Ornette Coleman e Bill Evans.

Lo scrittore segue da vicino la collaborazione di LaFaro con Coleman per l’epocale disco Free Jazz e poi racconta nel dettaglio delle incisioni al Village Vanguard con Bill Evans. Qui siamo nel cuore pulsante della storia del jazz. Staiano raccoglie per la prima volta in Italia e con amore tutte le informazioni utili al lettore per apprezzare LaFaro e le dispone poi in un libro dalla lettura agevole, non solo per gli specialisti, cedendo spesso la parola a testimonianze dirette (parenti e amici del contrabbassista, colleghi), con commenti illuminanti. Tra tante possibili frasi, eccone una geniale firmata dal bassista Christian McBride, che va a costruire una sorta di genealogia dello strumento nel jazz: “il modo di suonare di Scotty
era la Bibbia per i contrabbassisti. Jimmy Blanton il vecchio testamento, Scotty il nuovo”. E con questa citazione fulminante viene omaggiato anche lo sfortunato capostipite di tutti i contrabbassisti, scoperto da Duke Ellington e scomparso a soli 23 anni.

Il libro esplora anche le possibili influenze culturali per il lavoro di LaFaro, come quella per lo Zen, condivisa con Bill Evans e parte del bagaglio comune di molti intellettuali del periodo. E giustamente con uno sguardo zen viene considerata la registrazione live al Village Vanguard, un lavoro di routine, ben cinque set in un solo giorno nel locale. Orrin Keepnews porta il tecnico e ordina di incidere tutto, anche gli errori, le false partenze, il rumore del pubblico durante la cena, come se fosse incastonato in un flusso. Il genio, d’improvviso. “L’intero senso del jazz è farlo ora”, aveva detto LaFaro a Martin Williams durante l’unica intervista rilasciata a un critico di primo piano nella sua breve vita. In particolare un altro aspetto culturale viene garbatamente illustrato da Staiano: “Non mi sorprende che a Scott piacesse lo stile impressionistico di Rilke e il ‘flusso di coscienza’ di Joyce. Si potrebbe ipotizzare qualche parallelismo con il jazz in questo caso?”.

L’autore, come si dovrebbe sempre fare negli studi seri, cita le fonti e lascia la possibile risposta a John Lewis, una gemma estratta dal lavoro dello storico inglese Alyn Shipton: “Ornette poteva suonare abbastanza a caso usando frasi che non avevi mai sentito prima, ma inframezzate a queste c’erano frasi che conoscevi molto bene, riprese da vecchi standard o canzoni folk, e ciò mi ricordava l’uso della letteratura in James Joyce o in Dylan Thomas. Per me era una delizia…”. Come è una delizia quando il jazz viene affrontato con questo entusiasmo e quando, per “buon peso”, il lavoro ha anche il merito di riscoprire un musicista cardine del jazz ma un po’ trascurato. Omaggio nell’omaggio: un capitolo intero del libro puntigliosamente riscopre e precisa le origini calabresi di LaFaro.