Valerio Mattioli

Valerio Mattioli Exmachina, Storia della nostra estinzione, 1992→ ∞


Minimum Fax, 2022, Introduzione di Simon Reynolds, 352 pp., 16,15 euro Saggi | Musica

28/05/2022 di Franco Bergoglio
Il lettore approccia Exmachina, Storia della nostra estinzione, 1992→ ∞, il saggio di Valerio Mattioli, con fare speranzoso e, in effetti, si parte subito in maniera originale, parlando di Windows XP: ci troviamo immersi in un turbine che mescola le paranoie futuristiche di Philip K. Dick e le utopie tecnologiche della Silicon Valley. Le radici della musica elettronica non sono un affare di poco conto, che ha a che fare solamente con volumi esagerati, ritmi ossessivi e sballo in pasticca. Il fenomeno è complesso e Mattioli, con scrittura chiara (ma crepitante di concetti implosi), inizia a introdurre una notevole serie di variabili: «Con tutto il loro corredo di droghe smart, misticismo pseudo-orientale e bislacche liturgie sovrannaturali, fenomeni come il tecno sciamanesimo – o più in generale l’intera filosofia new age – sembravano richiamarsi in maniera esplicita alla vecchia cultura psichedelica che, dopotutto, era nata nella stessa California in cui prendeva forma il mito della Silicon Valley. La principale differenza però era, oltre che cronologica, di tipo ideologico: in piena Fine della Storia, e considerate le tragedie portate in dote dalle utopie politiche del Novecento, non era più il caso di invocare rivoluzioni di popolo o sovvertimenti violenti dell’ordine costituito» (p.30).

Qui entra in scena la musica, veicolo in grado di compiere un’operazione d’avanguardia, arte esploratrice in un campo nuovo e vasto che riguarda l’adattabilità dell’essere umano nel mondo della rivoluzione digitale. Rimanendo sul versante dell’esplorazione delle radici dell’elettronica, mi piace sottolineare un altro ingrediente di base, fondamentale per chi ama la musica afroamericana in ogni aspetto. Se la house era nata a Chicago, la techno era un prodotto di Detroit: «nata all’interno della comunità nera americana e costituiva un ulteriore anello di quel progressivo movimento di emancipazione dai vincoli dell’umano che va sotto il nome di afrofuturismo, un termine coniato dal critico culturale (bianco) Mark Dery nel 1993» (p.33). Si potrebbe ragionare sul fatto che ci sono voluti decenni per dare un nome e un’estetica al materiale scarsamente maneggevole di personaggi della musica black come Sun Ra o George Clinton.

Uno degli intellettuali di punta riferibili al fenomeno afrofuturista, Kodwo Eshun, ha esplorato anche gli aspetti più legati al rapporto uomo/macchina che coinvolgono la musica. Leggiamo le domande che si pone Mattioli sulla techno: «Sei letteralmente all’interno di qualcosa che hai creato tu, e che pure non ti prevede. In una tale situazione, chi suona cosa? Chi comanda chi? Chi si adegua ai linguaggi dell’altro? Quale misteriosa forza mi lega alla macchina che ho davanti, e quale strana potenza occulta lega lei a me? Kodwo Eshun rispondeva senza esitare: “ È la macchina a forzare in direzioni unumane”. E’ la macchina a costringere l’umano “a parametri inflessibili e impalpabili”-in una parola ad artificializzarti» (p.39).

Dopo le domande ed il dialogo a distanza con Eshun, Mattioli inizia a proporre tesi forti: «Dal punto di vista cognitivo oltre che meramente sonoro, la techno è stata quasi certamente la più profonda rivoluzione mai conosciuta dalla musica moderna –persino più importante della prima elettrificazione blues, o rock’n’roll che dir si voglia. La sua era un’alterità radicale che, con un furore appropriatamente dis-umano, faceva piazza pulita delle ultime vestigia della civiltà umanistica occidentale, e la differenza che la separava ad esempio dal rock –la forma di musica pop ai tempi dominante presso il pubblico giovanile innanzitutto bianco, ancora diffidente nei confronti di quell’altra “antimusica” che era l’hip hop – era talmente grande da rivelarsi incolmabile» (p. 40). Si tratta di un cambio di paradigma epocale che investe tutti gli aspetti della musica dal formato ep e remix contro 33 giri, musica non verbale e ripetitiva contro testi e varietà, ascolto e partecipazione, contro ballo e alienazione, il corpo dell’icona del rock esposto sul palco contro l’anonimato dietro una console, l’umano contro la macchina e così via: «Al posto di carne, sudore e sangue, ecco silicio, microchip e led» (p.41).

La prima parte del libro (consigliatissima!) prosegue così: tra una disamina della differenza di valore socio-estetico del ballo nel rock e nella techno, tra osservazioni sul ritmo e brusche deviazioni per andare a recuperare qualche nume tutelare come McLuhan o gettando lì aforismi terrorizzanti dimostrati poi con piglio convincente. «Se il pc era il nuovo lsd, a loro volta le droghe, proiettate nel dominio evanescente delle tecnologie informatiche, diventano lo strumento attraverso il quale insinuarsi all’interno delle oscure meccaniche della tèchne così da decrittarne il codice e finalmente ascendere agli stadi superiori della conoscenza macchinica» (p.64). Sicuramente non sono io la persona giusta per parlare di ascensione agli stadi superiori della conoscenza macchinica, visto il mio rapporto sbrigativo con le nuove tecnologie. So che sbaglio e so che i protagonisti della cultura lisergica californiana hanno anche avviato un fenomeno che oggi si è trasformato in Silicon Valley a tutti gli effetti, ma, pur sapendo che storicamente questo è corretto, fatico a immaginarmi un barbuto e abbronzato hippie che diventa padre di uno stuolo di nerd bianchicci e glabri.

Il libro ha il vantaggio di raccontare una musica, quell’elettronica colta denominata IDM (Intelligence Dance Music), che ha prodotto Aphex Twin, Autechre, Boards of Canada; nomi venerati di quel panorama musicale. Esattamente trent’anni fa nel 1992 usciva per la Warp Artificial Intelligence, la compilation-manifesto di un genere e potremmo definirla soundtrack-crema di un decennio dominato dall’idea del ballo pompato artificialmente e dall’elettronica. La musica contenuta nel disco Artificial Intelligence trovò nella Silicon Valley: «la sua identità, la sua missione, la sua funzione» (p.62). I termini della questione sulla natura della IDM vengono ridefiniti tracciando un panorama delle opinioni coinvolte che tira in campo Simon Reynolds (autore, tra l’altro della prefazione al libro), William Gibson, Brian Eno, Eshun, Bifo… Impossibile rendere conto della ricchezza di questo affresco che per rubare le parole utilizzate su Aphex Twin, spalanca: «il canale che separa il sopramondo dal sottomondo».

C’è anche un piccolo capolavoro di saggistica contemporanea nella decina di pagine che descrivono la musica e il videoclip (inscindibili tra loro) di Windowlicker, lo straniante successo da classifica di Aphex Twin che viene “letto” in maniera decisamente originale. Come se tutti gli strati di letture e ingredienti celati in un’opera contemporanea non rivelassero tanto il postmoderno quanto il postumano. Questo libro è consigliato SOPRATTUTTO a quelli che amano il jazz, il rock, il blues: a meno che non siate persone che vogliono a tutti i costi persistere nelle loro granitiche certezze, la lettura di Mattioli è in grado di aprire mondi e ascolti talmente lontani da essere probabilmente a distanze cosmiche da voi (come da me) e con sonorità che vi paiono inumane. Qualità che sono anche volute, cercate e rivendicate. Mattioli vi spiega tutto per bene e vi preannuncia quello che - se non lo avete capito ridate un’occhiata al titolo - sta per accadere: è in arrivo chi estinguerà la procedura. Per sempre. E non si parla più di musica.