Tibor Fischer

Tibor Fischer Sotto il culo della rana – in fondo a una miniera di carbone


Mondadori, 1997, € 6,20

di Andrea Balestri
Molto spesso la fruizione di un romanzo e le sensazioni che suscita, vengono influenzate dall’umore di chi si approccia ad esso, al di là delle qualità intrinseche dell’opera. Quando mi sono apprestato alla lettura del libro in oggetto, in tutta sincerità, non ero al massimo della forma, perciò probabilmente i miei giudizi andrebbero edulcorati.

Venendo poi alla storia raccontata da Fischer, trattasi delle vicissitudini di un gruppo di ragazzi ungheresi fra la seconda guerra mondiale e la rivoluzione del 1956 che, alle prese con le difficili condizioni di vita del loro paese, fra mille espedienti cercano di tirare a campare. Sin dalle prime pagine si avverte che lo scrittore nutre una radicata repulsione verso il socialismo reale sperimentato nell’Ungheria di quegli anni, e nel manifestare questa sua insofferenza verso quella politica, si avvale di uno stile narrativo piuttosto grottesco. Ciò che accade a Pataki e Gyuri, i due protagonisti principali, e all’universo di umanità che gravita loro intorno, appare spesso talmente bislacco da sembrare irreale. Subito dopo però, ragionandoci su, ci si accorge di come tanta strampaleria possa essere stata veramente possibile.

“L’evento che il telegiornale voleva riprendere era il quarto anniversario e mezzo della fondazione di una impresa agricola collettiva […]. Un buon cast è tutto. Ho già in mente il personaggio principale, zio Feri. E’ l’anziano del villaggio, per così dire,[…], adesso raggiunta una serena vecchiaia, guarda soddisfatto alle conquiste del popolo, […], lieto di sapere che le generazioni future non conosceranno mai bisogno né stenti, grazie all’applicazione del socialismo scientifico, ecc. ecc. […].Ha dei baffi che saranno lunghi mezzo metro. Trasuda arguzia da tutti i pori. […] Gati si avviò verso i campi per le riprese chiave . “Dov’è il nostro zio Feri?” urlò. “Zio Feri è molto malato”, spiegò il Presidente […], spiegarono tutti, a turno e in tono estremamente mortificato, che il vecchio Feri era davvero molto malato. Non potevano accontentarsi di un’altra macchietta, scelta con cura e sufficientemente decrepita? Per tutta risposta Gati scoppiò a ridere e pretese di essere accompagnato nell’umile dimora di Feri, dove il prete gli stava timidamente somministrando l’estrema unzione. […] “Secondo me sta benone” sentenziò Gati, ma il cameraman e Pataki dovettero portalo fuori di peso, perchè ormai l’intera struttura fisica del vecchio era allo stremo. […]. “Okay si gira” ordinò Gati. […]. Lo zio Feri rimase muto. Pataki non dubitava che se lo zio Feri fosse stato ancora provvisto della facoltà di locomozione a quell’ora se ne sarebbe andato, ma non poteva fare altro che starsene abbarbicato al cancello. Gati lasciò girare pazientemente la pellicola, in attesa dell’opinione dello zio Feri. Dopo uno o due minuti lo zio Feri si mise a piangere. “Perfetto!” , esclamò Gati. “I successi della democrazia popolare lo commuovono fino alle lacrime”. […]. Secondo Pataki lo zio Feri sopravvisse solo di poco a quel momento di gloria. Essendo una persona ben educata aspettò di essere ricondotto a casa per tirare le cuoia, mentre Gati caricava il camion di casse di vino ripetendo: “avete visto che baffi?”.

Quindi una volta ammesso che la realtà può essere più assurda della fantasia, ogni pagina del romanzo sarà letta sotto una luce diversa, velata da una malinconia che non abbandona più il lettore. A mio parere il romanzo non decolla subito, e neanche dopo un po’, ma proprio verso la fine, quando fa capolino una tragicità che, seppur sempre accennata, sembra non poter scalfire davvero le vite dei nostri protagonisti. In ogni caso credo che non sia tanto importante raccontare le vicende narrate nel romanzo quanto sottolineare le sensazioni che evoca, lasciando poi il lettore libero di interpretare queste emozioni attraverso la propria sensibilità, non intimidendosi, se lo ritiene, di dissentire con l’autore.