Thomas Pynchon

Thomas Pynchon Vizio di forma


Einaudi Stile Libero Big, 2011, pp. 472, € 20,00,Traduzione di Massimo Bocchiola Narrativa Straniera | Noir

01/09/2022 di Franco Bergoglio
Facciamo una ipotesi pynchioniana. Vizio di forma (Einaudi, 2011, trad. Massimo Bocchiola) non è solo il titolo del romanzo di Thomas Pynchon riferito a un cavillo procedurale del diritto americano o un omaggio a quell’altro postmoderno furioso di William Gaddis. Consideriamolo un titolo programmatico:Vizio di forma allude allora alla trama, il solito intrico proliferante di fatti, persone e parole che si dilata per 470 pagine, formalmente imperfetto, come la vita (e la letteratura). La vicenda è filtrata dalla mente “fumata” del protagonista, Doc Sportello: il quale si gira una canna ogni volta che noi lettori giriamo una pagina. Sportello, ex surfista, hippy impenitente, inganna il tempo portando avanti una sgangherata agenzia investigativa, la LSD Indagini, (l’acronimo sta per Localizzazione, Sorveglianza, Discrezione), occupandosi di infedeltà coniugali e piccoli imbrogli.

Fin qui nulla di strano: sono passati i tempi del privato necessariamente wasp che tanto funzionava trasposto al cinema in un continuum che corre da Humphrey Bogart a Elliott Gould passando per Robert Mitchum. Ne è passata di acqua sotto i ponti e oggi abbiamo già letto le vicende di investigatori privati appartenenti a ogni minoranza razziale possibile, di ogni orientamento sessuale, con tic improbabili, malattie di qualsivoglia genere e le vite più assurde. Sportello lavora e vive in un sobborgo scalcinato di Los Angeles. Per un detective L.A. è il teatro di posa naturale, l’ecosistema ideale alla vita di questo genere di figura, dagli anni Trenta fino a oggi. Pynchon mette Sportello a nuotare nelle acque sicure della letteratura noir (indagini, appostamenti, interrogatori) con una spruzzata di pulp (sparatorie e sangue splatter) che non guasta. Sportello vive di espedienti e idealismo, ma lo stesso valeva per il Philip Marlowe di  Chandler. Sfondarsi di cannoni e di acidi nel ‘69 è del tutto paragonabile allo scolarsi una bottiglia di Bourbon negli anni Trenta. 

Vizio di forma è un noir psichedelico, ironicamente sconclusionato, dove si respira l’aria frizzante di utopia che circolava ancora nel ‘69, anno di ambientazione della storia. È l’America della controcultura dei Sixties, di un sogno generazionale che ipotizzava un mondo diverso, dove l’amore avrebbe dovuto trionfare e le marce della pace far terminare il conflitto in Vietnam. Qui il sogno è filtrato dal clima da spiaggia edonistico losangeleno. Nel sottobosco della generazione dei figli dei fiori californiani scorrazza la Manson family, responsabile della tristemente celebre strage di Cielo Drive, dove morì tra le altre vittime Sharon Tate, attrice e moglie di Roman Polanski. Nel clima inquieto dei mesi che seguono quella strage vorticano gli altri elementi di un puzzle impazzito: le case da gioco di Las Vegas, la mafia, i palazzinari della California, il presidente guerrafondaio Richard Nixon e il Governatore della California Ronald Reagan, le azioni controrivoluzionarie di CIA e servizi segreti vari (dalle nostre parti diremmo degli apparati deviati), gruppi di biker neonazi, Pantere Nere, surfisti new age, sbirri reazionari, trafficanti di droga, dentisti criminali, rocker defunti che riappaiono dal nulla, prostitute, perditempo da spiaggia e geni del computer che navigano in Arpanet, la “mamma” del web. In questo marasma alla Pyncohon, si muove lo strampalato Sportello: sommerso da una quantità abnorme di indizi, emerge dai suoi casi grazie alla propria serendipità alimentata dalle sostanze di cui abusa. 

Nel tripudio incontinente di citazioni del lavoro di Pynchon, la musica è una presenza costante, ma in questo romanzo fa la parte del leone con titoli e autori presenti praticamente in ogni pagina. Viene spontaneo un paragone con C’era una volta a Hollywood (2019) di Quentin Tarantino, dove la musica fluisce  ininterrottamente dalle autoradio dei protagonisti (Leonardo DiCaprio, Brad Pitt) sempre accese durante le scorribande stradali previste dalla trama. Le analogie tra il film di Tarantino e il libro di Pynchon, a partire dalla localizzazione spazio temporale identica nella Los Angeles dominata da Charles Manson, sono tante e ci porterebbero lontano.

Rimaniamo alla musica (entrambi citano un must di quel periodo, Tommy James & the Shondelles). Pynchon innaffia il libro di rock californiano e non, r&r e r&b, country, pop, musica da film, piano-bar, samba e latin, swing e jazz per trovare una sorta di centro nella musica surf, in particolare con il sottogenere surfadelico, caratterizzato da: «chitarre con accordature dissonanti, modalità particolari come lo hijaz kar post Dick Dale, urla incomprensibili che avevano a che fare con lo sport del surf, e quegli effetti sonori estremi per cui era nota la musica surf: rumori con la voce, feedback di chitarre e strumenti a fiato». Un discorso “tecnico” tra scale arabe e riferimenti a Dick Dale, pioniere della chitarra surf (e tra i primi divulgatori del verbo Fender Stratocaster).

Qualche critico ha scritto frettolosamente che le citazioni musicali sono meravigliose, senza cogliere il punto. Chiuderla così non rende conto della pulsione onnivora del citazionismo musicale di Pynchon, che, dal colto al popolare, dall’alto al basso dello spettro culturale, alternando la citazione dotta al riferimento pulp, copre l’orrido e il meraviglioso, il pienamente centrato e il fuori contesto, da Fly Me to the Moon di Frank Sinatra (la canta Doc Sportello) a Eight Miles High dei Byrds sparata a tutto volume dalle autoradio. L’autoradio, perennemente accesa mentre si va su e giù Per le Strade della California, esattamente come fa Tarantino nel suo film, funziona nel libro come una lavatrice che lavora di centrifuga. Altro che belle citazioni, il programma centrifuga lava tutti i panni (musicali) e ce li restituisce lindi e profumati senza distinguo estetici. Qui c’è pop, là c’è jazz. Il mood mid-sixties californiano a volte viene pennellato con quel certo “sapore messicano” di metà anni Sessanta, fatto di: «ottoni strascicati e irriverenti e gli arrangiamenti sincopati pseudofighi alla Herb Alpert, in cui Doc riconobbe con crescente orrore una cover di Yummy yummy yummy degli Ohio Express». Per noi italiani l’equivalente potrebbe essere la sigla di Novantesimo minuto, sempre di Alpert. Tradotto in musica potrebbe essere il disco Song Cycle di Van Dyke Parks che, come ha ricordato Eddy Cilìa riprendendo una definizione di  Billboard, era «Pynchon su vinile”. 

Il jazz riscuote poca attenzione in questo romanzo, ma tra gli ispiratori del sassofonista -presunto defunto- del gruppo surf dei Boards c’erano «Earl Bostic, Stan Getz e il leggendario sax tenore da studio Lee Allen», un nome per pochi che al contrario probabilmente tutti abbiamo sentito almeno una volta, magari in un nostalgico numero r&r di Fats Domino. Più avanti nel libro ritroviamo il sassofonista redivivo mentre si esercita provando Donna Lee, il celebre brano di Charlie Parker. Ogni volta che compare in scena il sassofonista Coy Harlingen, ora in sottofondo, ora in primo piano, troviamo del jazz, quasi fosse il leitmotiv che accompagna il personaggio.

Tra i quadri jazzistici c’è anche spazio per la scena nel night con l’immancabile cantante in: «abitino nero anni Cinquanta e tacchi a spillo di altezza interessante». Lo sfondo sonoro viene opportunamente punteggiato di brani definiti da Pynchon «lounge»; da It Never Entered My Mind ad Alone Together. In contrapposizione a questo set  anni Cinquanta“indoor”, buio e fumoso viene inserito il Lighthouse, lo storico jazz club dentro il faro, location per una assolata scena “in esterna” del libro. Davanti all’ingresso del locale si crea: «una coda sfilacciata di hippie che muovevano la testa al ritmo della musica, oggi di Bud Shank e di una sezione ritmica». Se deve citare un periodo o un movimento, Pynchon non regala mai e poi mai il nome più facile per fornire un appiglio al pubblico: per dare l’idea del west coast jazz non usa Art Pepper, Shorty Rogers o Gerry Mulligan, ma va a pescare nella nicchia e tira fuori Shank.

Ah, Pynchon! Un fil rouge jazzistico lo riserva anche l’ultimo tema da evidenziare nel libro. I grandi noir del cinema e della tv avevano sontuose colonne sonore a base di jazz, a partire proprio da quel Johnny Staccato utilizzato nel dialogo che segue come prototipo, buono per condire una perfetta teoria sociologica del noir: «...gli investigatori privati sono spacciati (…) lo si capiva da anni che sarebbe successo, nei film, alla tele...Una volta c’erano tutti quei grandi investigatori – Philip Marlowe, Sam Spade, il detective dei detective Johnny Staccato, sempre più intelligenti e professionisti degli sbirri, infatti alla fine sono sempre loro a risolvere i casi mentre gli sbirri seguono false piste e sono d’intralcio e basta. (…) Già, ma oggigiorno non si vedono che sbirri, la tv è satura di telefilm di sbirri del cazzo, gente normale, cercano soltanto di fare il loro lavoro, ragazzi, non minacciano la libertà di nessuno (…). Bene. Fai affezionare il popolo degli spettatori agli sbirri e alla fine i telespettatori non vedranno l’ora di essere arrestati. Addio Johnny Staccato, benvenuto Steve McGarrett; e per favore, intanto che ci sei buttami giù la porta a calci».

Se il noir è lo specchio dei cambiamenti dell’America, anche Pynchon con Doc Sportello prende posizione e, rispettoso della tesi che abbiamo citato poc’anzi, da inguaribile personaggio controcorrente punta sul romantico, alternativo detective privato dalla canna facile