Thomas De Quincey

Thomas De Quincey Le confessioni di un mangiatore d'oppio


1956, RIZZOLI EDITORE

di Christian Verzeletti
A che scopo leggere oggi un tomo come “Le confessioni”? Innanzitutto perché ricorriamo molto spesso in modo inproprio a espressioni come “droghe leggere”, “senso romantico”, “soggettività” e poi perché, vivendo in un’epoca in cui tutto è concesso in nome dell’individualismo, non può che far bene appoggiarsi di tanto in tanto alla salda struttura di qualche romanzo di formazione.
“Le Confessioni di un mangiatore d’oppio” rientra tra le opere della cosidetta prima generazione romantica ed è un lungo peregrinare per la vecchia Inghilterra attraverso gli inquieti paesaggi dell’animo poetico di De Quincey, dall’infanzia tormentata fino a una maturità mai del tutto sollevata.
De Quincey è uno dei promotori di quello sguardo romantico che poi tanto influenzò qualsiasi tipo di arte successivo. Il suo linguaggio non è affatto leggero, ma affascina proprio per quell’abbondanza rindondante di descrizioni interiori, di divagazioni, di capricci e di atmosfere melodrammatiche che poco alla volta avvolgono il lettore e lo sollevano dal prolisso procedere della storia.
Qua è racchiuso tutto il romanticismo fino a proporne quasi un manifesto: la fuga da casa, i viaggi attraverso una natura impervia, la costante inquietudine sentimentale, la precaria posizione sociale, gli studi dei classici greci e latini, il rapporto controverso con la grande città fino all’utopica liberazione attraverso l’oppio. Ed è proprio su questi temi, sull’altalena tra improvvise intuizioni e inevitabili decadenze, che autori come Baudelaire, Shelley, Byron e altri hanno costruito la loro opera.
Da vero romantico, il De Quincey affronta ogni argomento fino all’esaurimento, sia esso una descrizione degli effetti dell’oppio o un paesaggio del Galles o le tiranniche imposizioni di un tutor.
Le pagine più illuminate sono quelle dedicate all’estasi dell’oppio in cui si percepisce il sollievo dell’autore e lo scorrere spontaneo delle sue emozioni sulla carta, inebriate dalla scoperta rivoluzionaria: “ecco il segreto della felicità, intorno al quale i filosofi avevano disputato per tanti secoli! Eccolo scoperto d’un tratto: la gioia si può comperare con due soldi, si può tenere nel taschino del panciotto: estasi portatile che si può imbottigliare a litri, pace dell’anima che si può spedire per posta”.
È proprio in queste pagine che il linguaggio stesso si libera, che la scrittura diventa “un pensare ad alta voce, un seguire il mio umore, senza quasi darmi pensiero di chi ascolta” e si fa chiaro che “l’essenza di tutto il libro, lo scopo finale del racconto, sono i sogni”: senza un tale anelito di libertà a far fluire la penna, saremmo arrivati, per esempio, alla scrittura disinibita della Beat Generation?
Non si ingannino dunque quanti fossero alla ricerca di un accattivante romanzo sui paradisi artificiali: “Le confessioni” narra prima di tutto “i tormenti d’un uomo che passa da un modo d’esistenza a un altro ed è soggetto alle pene commiste o alternate del nascere e del morire”.