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Stefano Zenni Che razza di musica
Jazz, Blues, Soul e le trappole del colore Musica | EDT, pagg. 184, euro 11.50
18/02/2017 di Mauro Musicco
Dopo l’accenno d’obbligo alle origini africane, si succedono cinque periodi della durata esatta di un decennio ciascuno caratterizzato da uno stile (e dunque da un nome) e da un paio di innovatori (Sparti, 2005, p. 39).
Cornici didattiche necessarie. Tuttavia, non di rado, sono inquadramenti che superato lo scoglio razzista esitano - in buona o cattiva fede - nel rappresentare il Blues, il Jazz o il Soul, come un tutto omogeneo e coerente. Densità estetiche, cosmogonie di stili e figure piuttosto che costruzioni culturali. Esposizioni fisse, canonizzate, sopravvissute a se stesse, invece di espressioni che ancora oggi vivono nella storia e non a dispetto di essa. Generi musicali mutevoli nel loro procedere, mescolati, intrisi di vicissitudini drammatiche che hanno caratterizzato e tuttora insistono sul loro sviluppo. Problematizzare l’essenzialismo riscontrabile nel discorso sulla musica afroamericana è, al fondo, il tema del libro e a EDT va il merito di non aver eluso una visione ancora poco presente nella critica musicale di ogni latitudine.
Stefano Zenni, musicologo, storico del Jazz e delle musiche afroamericane, docente al Conservatorio di Bologna, direttore artistico e molto altro ancora, affonda le sue considerazioni nella stereotipia che circonda questa musica. Posizionato nella contemporaneità occidentale anche Stefano Zenni parte dal razzismo, il fenomeno che ha contribuito - se non determinato - la nascita del Blues, del Jazz e consimili. Il suo sguardo alla cosiddetta “musica nera” di ieri e di oggi parte da quest’antefatto. Rileva quanto ancora subdolo sia questo stigma escludente. Trasformato ma non sopito, mutato ma non scomparso, il razzismo è ancora legato al colore della pelle. Tuttavia incoraggia a osservare, al di la dell’aspetto biologico, come il razzismo sia soprattutto in grado di legittimare costruzioni ideologiche date per “naturali”. Il razzismo diventa così il punto di accesso per mettere in intrigo concetti complessi, utili a riaggiornare un transito nella musica afroamericana.
Uno dei limiti delle discussioni sul razzismo negli Stati Uniti, comprese quelle sulla musica sta proprio qui: si prova a comprendere la realtà ricorrendo a uno strumento linguistico screditato (Zenni, 2016, p.13).
“Etnia”, “Identità”, “Colorism”, “Passing”, “Bianchezza”, diventano per Zenni, tutte stazioni di una mappa critica, in grado di farci riflettere sul luogo comune di una presunta supremazia dell’africano americano nella cosiddetta “musica nera”:
La percezione che non solo i neri producano una cultura musicale differente da quella dei bianchi, ma anche che - in fondo – questa differenza sia diventata, o forse sia sempre stata, “naturale” (Zenni, 2016, p. VIII).
Questa tesi, ancora molto condivisa tra semplici appassionati e cultori, viene - a ragione - convintamente criticata su più fronti. Non sono pochi gli esempi portati dall’autore per smentire questo pregiudizio. Zenni trae dalla storia del Blues, del Jazz, del Soul dimostrazioni di come la musica ebraica, il contributo italiano, quello europeo, abbiano rappresentato più di un'eccezione nel condividere, contribuire, al solco di queste musiche senza alcun complesso d’inferiorità. Zenni, nel farlo, afferma implicitamente il carattere ambiguo, altro, meticcio, ibridato della musica afroamericana. Un’analisi salutare per comprendere che queste musiche, seppure dotate d’indiscutibile distintività, originali nelle soluzioni organizzate da molti, geniali, esecutori africano americani, ispirate collettivamente attorno a un più generale destino afroamericano, non possono tuttavia essere considerate il recinto di una “natura” esclusivamente africano americana. Questa consuetudine ad attribuire un primato nero in queste espressioni si rivela spesso come un purismo folklorico improbabile, alla fine, una velata forma di razzismo. Il modo peggiore per dare lustro, continuità, memoria, spazi di elaborazione a una musica d’ineguagliabile fecondità.
Il libro di Stefano Zenni si presenta allora come un testo d’indiscutibile valore. Accorcia un ritardo, riempie un vuoto, stimola il dibattito italiano. Una critica, forse, è nello slittamento operato nelle conclusioni, almeno laddove si afferma:
Come ci ricorda W.E.B Du bois, la musica degli africano americani è l’eccezionale dono che ex-schiavi hanno fatto al mondo. Il dono di una musica che è resistenza e apertura, voce individuale e inclusione collettiva, opposizione all’egemonia e mano tesa verso l’altro (Zenni, 2016, p.171).
Senza, infatti, nulla togliere al carattere aperto, resistente, oppositivo, verrebbe da dire politico, di queste musiche (altro tema spesso tacitato in favore della loro mitizzazione), quest’idea ricorrente, non nuova, in base alla quale la musica afroamericana sarebbe ‘un-dono-fatto-al-mondo’ non convince. Una conclusione che in qualche modo macchia lo sviluppo precedente. E’ lecito domandare, e non solo a Zenni, ma quando sarebbe avvenuto questo “dono”? Dove? Nelle sfere del mercato, dello Stato, della sfera privata? Chi lo avrebbe consegnato? Il singolo musicista, la tendenza di più musicisti oppure un’anima popolare afroamericana, non meglio specificata e sovradeterminata? Insomma, almeno per chi scrive, questa storia del dono imbarazza sul piano concettuale ed empirico. Attribuire poi una tale concezione a W.E.B Du Bois è discutibile. L’opera di questo grande intellettuale afroamericano, che pure ha dedicato annotazioni vivissime all’intendere di una musica afroamericana, ha in primo luogo preteso l’ammissione del negro nell’arte per stare con pari dignità dentro l’arena della supremazia bianca. Nessun eccezionale gesto gratuito, ma una richiesta gridata, sincopata, agguerrita, sghemba. Una carità forzata, non un dono, per una degna inclusione nella vita civile dentro ad una società escludente. Detto in altro modo, Du Bois appare più convinto di un orgoglioso, affermato, gesto benefico del “decimo con talento” per se. Cosa diversa da un “dare senza contare” (Godbout,1993) contenuto nel concetto di dono.
Piace pensare che le conclusioni ispirate al concetto di dono invocate da Zenni, diversamente da altri autori, siano solo più affini a un gesto inteso come sistema. Quel “dare, ricevere, ricambiare” che diventano rielaborazioni musicali operate dentro a scene ormai translocali, nel rapporto che noi, qui, intratteniamo con esse, nel beneficio che traiamo da queste musiche quando si trasformano in attribuzione di significati che diamo alle nostre vite e al nostro stare nel mondo. Ma questa obiettivamente è un’altra storia, tutta da scrivere.