Simon Reynolds

Simon Reynolds Retromania


Minumum Fax, 2017 Saggi | Musica

19/06/2019 di Franco Bergoglio
Siamo ossessionati dal passato. La musica di oggi è perseguitata dalle note di ieri e non fa che citare, rivisitare. Perché tanta nostalgia? Retromania di Simon Reynolds (ristampato da Minimum fax nel 2017) fornisce alcune chiavi interpretative alla spasmodica ricerca del “vecchio”. Per Reynolds «non è ma esistita una società umana così fissata con i prodotti del passato immediato», incapace di immaginare un futuro. «E’ così che finisce il pop: non con il bang del colpo di grazia, ma con un cofanetto il cui quarto disco non trovi la forza di infilare nel lettore cd, o con il costosissimo biglietto per assistere alla riesecuzione traccia per traccia di quell’album dei Pixies o dei Pavement che hai ascoltato fino alla nausea durante il primo anno di università».

La retromania come fuga dalla contemporaneità verso un passato mitizzato, arcadia irrecuperabile. Ci piace l’idea di un salvagente fisico nel mare aperto di internet. Tornano l’obsoleto Nokia 3310, e il voluminoso vinile. Giochi da tavolo contro video games, libri contro e-book, persino il giornale cartaceo, perché posso sfogliarlo tutto, senza farmi travolgere dal flusso degli approfondimenti. E’ la rivincita dell’analogico che sopraggiunge ogni qualvolta non ci sentiamo attrezzati per gestire la complessità. Il rifugio in un bene concreto, dotato di inizio e fine, che ci isola per qualche istante dalla  rete-magma.

La nostalgia conduce anche a estremi richiami della foresta: Trump invoca il ritorno al carbone, commuovendosi al ricordo di ciminiere inquinanti (che però portavano lavoro agli elettori). Contro gli aspetti deleteri del presente preferiamo rifugiarci nel ricordo di un passato felice, eden di prosperità. Da Esiodo a Virgilio l’età dell’oro rappresenta un mito di lontano benessere che un giorno forse tornerà. Dal passato classico fino a quello americano che Gore Vidal nel romanzo L'età dell'oro colloca negli anni Cinquanta. E’ un caso che la nostalgia della musica ciclicamente riprenda il rock’n’roll anni Cinquanta e le note utopiche anni Sessanta? Che nelle piazze saltellino gioiosi lindy hoppers anni Venti? Che susciti tenerezza perfino il pop anni Ottanta? E’ il ritorno a un mondo migliore. Si stava meglio quando si stava meglio. Per questo ci piace l’analogico, così denso di materia. Il giornalista David Sax ha scritto nel libro The Revenge of Analog: Real Things and Why They Matter: «la scelta non è tra digitale e analogico. Quella dualità semplicistica è il linguaggio che il digitale ci ha condizionato a usare: una falsa scelta binaria tra 1 e 0, bianco e nero, Samsung o Apple. Il mondo vero non è in bianco o nero e nemmeno solo grigio».

Oggi chi pensa in termini di «o/o» o è considerato vetusto. Il binomio «più/e» chiarisce che non devi più scegliere tra due cose, perché puoi averle entrambe; né schierarti, perché ogni cosa ha dei lati positivi. Con il filosofo Daniel BensaÏd potremmo malignare che queste opposizioni binarie cancellano il conflitto sociale e mettono (forse) in freezer il nostro cervello.  

 Il collezionista di ossa...musicali

 Fino a pochi anni fa l’esistenza culturale musicale si svolgeva prevalentemente al presente. Non più tardi della fine degli anni Settanta le case discografiche cancellavano i vecchi dischi dai cataloghi. Non era decollata la cultura della ristampa. Il rintracciare musica datata implicava lunghe ricerche in biblioteche pubbliche, negozi di usato, dispendio di denaro in duplicazioni. Le chicche venivano trasmesse a notte fonda e per Reynolds «se te le lasciavi sfuggire svanivano nell’inaccessibilità più totale». Il rapporto si è radicalmente trasformato nell’era «YouTubeWikipediarapidshareiTunesSpotify». Tutto diventa memoria storica mentre accade.

Siamo vittime della nostra inarrestabile capacità di immagazzinare e condividere dati. «Non è mai esistita una società non solo tanto ossessionata dai prodotti culturali del suo passato più recente, ma anche tanto capace di accedere al passato immediato». L’ansia porta a una iperdocumentazione, con l’espansione astronomica delle risorse mnemoniche resa possibile da You Tube, per Reynolds, «molto più facile da consultare della mia enorme e disordinata collezione di dischi».

Nel tubo si trova tutto: dai cortometraggi d’avanguardia alle sigle di programmi per bambini; è un contenitore fondato sulla frammentazione delle narrazioni lunghe (il film, l’album) in spezzoni e questa funzione incoraggia a scindere in unità sempre più piccole, «insidiando la nostra capacità di concentrazione e di lasciare che le esperienze si dischiudano». Ci rende automi dipendenti da barre di ricerca e indicizzazioni, «scaricatori affetti da fame cronica» con «l’ottusità irrequieta degli slot-machinomani di Las Vegas e Atlantic City a una coazione a ripetere (cliccare, trascinare, digitare), simile al comportamento dei ratti da laboratorio intenti a premere più e più volte l’interruttore che rilascia la dose di cocaina».Perverso, ma affascinante: «se avessi una seconda vita (e la fortuna di poter vivere di rendita), sarei felice di poter passare le giornate a ingozzarmi di tutte queste carogne culturali. Con la commistione di passato e presente internet spappola il tempo e lo rende spongiforme». Un «audio fast-food», dove la musica lievita «con il suo vertiginoso turnover di micro-trend e la sconfinata circolazione gratuita di podcast e dj mix». Una formula che propone un ciclico ripetersi dove nuove ramificazioni si dischiudono in elenchi di possibilità infinite che si muovono zigzaganti come crepe su un muro, una teoria virtualmente infinita che crea mentre li attiva con un click percorsi non uniformi, obbligati a centrare il bersaglio conoscitivo che si è dato il nostro cervello in tempi sempre più rapidi. Un processo che divora contenuti senza digerirli e lascia dietro di sé una teoria di oggetti inerti, privi di qualsiasi vocazione, fosse anche escatologica. 

La musica è ricettacolo di questa ansia da archiviazione, passando dal modello di consultazione tradizionale allo zapping via telecomando e poi web, con la sua distraente sovrabbondanza di stimoli. La collezione ha il fascino dell’insieme vasto ma limitato di oggetti in cui posso riflettermi. Che senso ha collezionare tracce con Spotify o You Tube?

La collezione di dischi nell’iPod incamera una quantità enorme di passione in uno spazio minuscolo. La funzionalità shuffle è emblematica: eliminando la scelta, «ti risparmia il fardello del desiderio. Ed è questo che offrono le nuove tecnologie musical-digitali: il pop senza passione». You Tube e iPod amplificano il “Mal d’archivio”, di Jacques Derrida. «L’equivalente musical-ossessivo della crisi di mezza età è quando tutte quelle potenziali meraviglie impilate sulle mensole smettono di darti piacere e cominciano a somigliare a messaggeri di morte». Reynolds traccia un quadro del collezionismo con i suoi riferimenti culturali: da Derrida alla pulsione di morte (Freud, la pulsione era anche sessuale e il collezionista una “controfigura di Don Giovanni”). Il collezionista vuole rimanere in uno stato di desiderio insaziabile (la collezione nasce per essere finita o no?),  perché “in realtà si colleziona sempre il proprio io”, (Baudrillard) lottando contro la passione che sconfina col caos dei ricordi (Benjamin). Il canadese Will Straw si spinge a sostenere che il collezionismo offra una mascolinità alternativa dove il dominio si fonda su conoscenza e giudizio invece che su leadership e forza fisica. D’altronde «collezionare era quasi un obbligo per i ricchi e i potenti...Collezionare significava sapere» (Alberto Bolaffi).

 L’archiviazione spazia dalle cosmologie greche ai compendi medievali, dalle enciclopedie illuministe ai teatri della memoria rinascimentali, alle wunderkammer stipate di oggetti straordinari. Oggi la «nube di dati» mette a portata di dito con la realtà fisica (Google Earth) anche ogni centimetro quadrato di materia culturale, comprese le arti performative, dove l'artista, onnivoro creatore/divoratore di immagini/suoni/oggetti si fa interprete del nostro vedere/sentire bulimico. Qualche giovane artista più consapevole delle radici di questa “mescola” parla di «cultura del remix», mutuando esplicitamente dalla musica l’operazione di sampling. L’archivio diventa metafora artistica della contemporaneità, postmoderno letterario pynchoniano in libera uscita verso le arti.

 Un revival...roccioso

 Paradosso della nostalgia per i sixties: l’idea stessa di una musica in perpetua evoluzione è un’eredità…degli anni Sessanta. Quel decennio fissò l’asticella a un’altezza impossibile: «Nei Sessanta è successo di tutto», ricordava J.G. Ballard nel 1982, citando la corsa allo spazio, il Vietnam, l’LSD e il fermento giovanile). «Era come un enorme luna park impazzito. E io pensavo: “Be’, scrivere del futuro non ha più senso, il futuro è qui. Il presente si è impadronito del futuro”». Per Reynolds i Sessanta divennero la principale forza generatrice della cultura rétro. Grazie alla presa che esercitava sulla nostra immaginazione, «il decennio più esplosivo e innovativo del Novecento si trasformò nell’esatto contrario. (…) Come se non riuscissimo a consegnare definitivamente questo passato al passato. La neofilia che si fa necrofilia ».

Reynolds ricostruisce la genesi della retromania fino al...1968. L’anno della rivoluzione giovanile, puntato per definizione al futuro, è anche quello dove si scorgono i primi segni dell’involuzione.

Tanti veterani del rock’n’roll primigenio tornano a calcare le scene. Il memento dei giorni felici passa per il 1° maggio 1968 con Bill Haley & His Comets in tour nel Regno Unito, sold out alla Albert Hall. E chiude a dicembre con il 1968 Comeback Special di Elvis Presley, un’elettrizzante resurrezione televisiva del re. Il promoter Richard Nader inventa il rock revival con le vecchie stelle, che nel 1969 fa il tutto esaurito al Madison Square Garden di New York (First Rock Revival con Chris Isaak e gli Stray Cats. Nader diventa il magnate di una milionaria “industria della nostalgia” che arriva a comprendere i big band festival che riesumano i tempi delle grandi orchestre da Ellington a Guy Lombardo. I festival di Nader si rivolgevano agli ex teenager degli anni Cinquanta nostalgici della loro musica e molto lontani dal pop rock beatlesiano, questo mentre già Lester Bangs e Greg Shaw soffiavano sul fuoco dicendo che il rock iniziava a somigliare pericolosamente al jazz. Nel 1969 Bangs scrisse su Roling Stone che il «ritorno alle radici» era stato inaugurato dai Beatles, con il White Album, pubblicato il 22 novembre 1968. 

La rinascita del rock’n’roll – una reazione a Sgt.Pepper’s e all’«artificazione» del rock – era stata inaugurata dagli stessi Beatles con «Back in the U.S.S.R», una parodia di Back in USA di Chuck Berry, contenuta nel White Album, condita con un sound alla Beach Boys prima maniera (prima che Brian Wilson risentisse dell’influenza dei Beatles) e impreziosita da un sample proveniente da Ray Charles (il verso Georgia’s always on my mind: l’ironia stava nel fatto che la Georgia sia una Repubblica Sovietica e uno stato del Deep South americano.

Ma il White Album non era una semplice rinuncia agli artifici da studio: c’erano tracce che riprendevano l’approccio di Revolver/Sgt.Pepper’s, mentre il panorama sonoro musique concrète di Revolution 9» rappresentava l’esperimento di montaggio più avanguardista realizzato dai Beatles. L’album doppio era un formato eclettico, quasi inedito nel rock: non solo attingeva a stili diversi (una prassi comune), ma ripercorreva l’intera storia del rock in quanto tale, vale a dire agli allora quindici anni del genere. Nella sua storia del rock del 1969, Carl Belz individuava il carattere rivoluzionario del White Album in questa referenzialità giocosa, il modo in cui le canzoni «derivavano apertamente»  da Beach Boys, Chuck Berry e Bob Dylan e persino dalle prime fasi della carriera dei Beatles stessi. L’altro alfiere del postmodernismo rock ante litteram è Frank Zappa, la cui parabola creativa rispecchiava (e sbeffeggiava) quella dei Beatles. Uscito alla fine del 1968 qualche settimana dopo il White Album, Cruising with Ruben & The Jets era un album-parodia del doo-wop, con Zappa e le Mothers of Invention nei panni di un immaginario gruppo vocale anni Cinquanta (…) sulla falsariga dei Flamingos.

In aggiunta potremmo elencare il sound grezzo dei Creedence Clearwater Revival. Il loro repertorio era equamente diviso tra canzoni di protesta e celebrazioni della vita rock. Con un mood più bucolico The band attingeva alla stessa atmosfera di nostalgia pastorale. Music From Big Pink, il debutto del 1968 e The Band del 1970 erano -per Reynolds- «sinfonie in marrone».

Greil Marcus in Mystery train sostiene che “il sound antiquato della Band offriva al loro pubblico – la generazione rock, la controcultura- un appiglio per riallinearsi culturalmente all’«America» in un periodo (il 1968-70) di sostanziale disaffezione politica verso gli Stati Uniti: il Vietnam, gli omicidi di Bobby Kennedy e Martin Luther King, l’elezione di Nixon, la sparatoria alla Kent State contro gli studenti dimostranti.

Malinconia contro innovazione. Riprendiamo un momento un altro esperto, Elio Venditti, che nella sua Storia del rock (Editori Riuniti, 1997), lanciava questa suggestione: «è possibile forse applicare al rock e più in generale alla musica pop del Novecento un’altra dicotomia, quella tra melanconia e novatio introdotta dal filosofo francese Jean-François Lyotard negli anni ’80: sul versante melanconia gli espressionisti tedeschi, sul versante novatio Braque e Picasso, (..) Qui si parla di illustri esponenti delle arti visive, ma ci si potrebbe divertire a rileggere la storia del rock in base alla distinzione di Lyotard. Tom Waits è melanconia o novatio? Tra i Beatles e i Rolling Stones chi era melanconia  chi novatio? ».

Categorie che la letteratura ha anticipato in maniera intuitiva con i cronopios e famas di Julio Cortázar. I primi sono l’intuizione, la poesia, il capovolgimento delle norme; gli altri l’ordine, la razionalità, l’efficienza. Per portare un esempio noto Louis Armstrong è un «enormissimo cronopio».

 

Revival, mode e marxismi di ritorno

 Si guarda indietro quando scrutando avanti non si intravede un futuro, quando mancano obiettivi visionari a cui puntare.

Negli anni Sessanta le utopie erano aperte. Gli stessi spazi fisici non erano saturi:si poteva esplorare lo spazio. Reynolds individua una cesura simbolica: la fine del programma spaziale dopo le missioni che hanno portato l’uomo sulla luna ha parallelamente segnato la fine dei compositori che si ispirano allo spazio, una tendenza che scema negli anni Settanta (Pink Floyd, Jean-Michael Jarre, Stockhausen, David Bowie, Sun Ra). Non ci sono più grandi narrazioni, neanche in musica, ma Reynolds immagina a mode cicliche, mettendo l’accento -con un colpo di scena- sui meccanismi capitalistico-culturali postmoderni, indagati tra gli altri da Fredric Jameson.

La moda è l’intersezione tra capitalismo e cultura. L’autore indica nel 1965 l’anno di apogeo dell’innovazione nella moda, dopo arrivano le tecniche postmoderne (pastiche, riciclaggio) e nel 1966 Biba inizia a proporre per gli stilisti d’avanguardia il ritorno al vecchio.

La moda ha percorso questo fenomeno anni prima del pop; in seguito, «poco alla volta, la musica popolare ha assimilato il metabolismo artificialmente accelerato della moda, i rapidi cicli di obsolescenza pianificata». Qui Reynolds/Jameson punta al cuore del meccanismo: «La moda –una macchina per creare capitale culturale e poi, a velocità incredibile, spogliarlo del suo valore e gettare via le scorte – è dappertutto». La storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa. L’incipit del 18 brumaio di Luigi Bonaparte di Marx ben si adatta al rigenerarsi senza sosta del pop: fenomeno oltre la farsa, effimero come le mode di stagione. «In realtà quando si predice il ritorno del rock chitarristico è come dire che i pantaloni a vita alta sono tornati o l’espressionismo astratto è tornato». Quindi? Possiamo concludere che il futuro della musica sta in un altrove nebuloso...


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