Salvatore Niffoi La leggenda di redenta tiria
Adelphi, Milano 2005 Narrativa Italiana | Narrativa
di Luca Meneghel
Il primo libro che Calasso ha pubblicato è “La leggenda di Redenta Tiria”: lo ha letto D’Orrico, rinomato critico letterario con una pagina fissa sul “Corriere della Sera Magazine” (che già lanciò Faletti con il suo bestseller d’esordio “Io Uccido”), il quale ne ha tessuto lodi sperticate, rendendo Niffoi uno dei casi letterari dell’anno. D’Orrico, nei suoi giudizi, è tendenzialmente infallibile: anche questa volta sembra proprio aver fatto centro se nella rubrica delle lettere a lui indirizzate un lettore disperato arriva a chiedere cosa può leggere per colmare il vuoto lasciato dalla fine del romanzo di Niffoi.
“Ad Abacrasta, di vecchiaia non muore mai nessuno, l’agonia non ha fottuto mai un cristiano. Tutti gli uomini, arrivati ad una certa età, si slacciano la cinghia e se la legano al collo. Le donne usano la fune”.
Abacrasta, Niffoi lo mette subito in chiaro, non la troverete su nessuna enciclopedia e su nessuna cartina geografica: il paesino sardo, che fa da sfondo alle vicende della leggenda, è conosciuto solo nel circondario in cui è rinomato come “paese delle cinghie”. Le cose stanno così: arrivati ad una certa età gli abitanti sento una voce maledetta, “Ajò! Preparati, che il tuo tempo è scaduto!”, prendono una corda e si impiccano o, in mancanza di funi e appigli, si tolgono la vita in altro modo, a seconda delle circostanze. Un bel giorno giunge in paese una ragazza cieca, figlia del sole (stando alle sue parole), e da quel momento la gente sembra trovare la forza di rispondere alla voce maledetta dicendo “Voglio vivere”: basta suicidi, gli abitanti di Abacrasta iniziano ad attendere che sia la natura a decidere per loro.
Chi ci racconta tutto questo, il narratore a sua volta implicato nelle vicende del paese, è Battista Graminzone, ex ufficiale dello Stato civile del comune: sta a lui stendere i certificati di morte, chiedendosi perché i propri compaesani decidano improvvisamente, ed apparentemente senza motivo, di rinunciare al dono più bello.
Per farvi un’idea dell’organizzazione letteraria dell’opera prendete in considerazione “L’antologia di Spoon River” di Lee Masters: ogni capitoletto è dedicato alla vita di un personaggio (come ogni poesia di Lee Masters dava voce ad un morto di Spoon River) sino a quando non decide di togliersi la vita (o, nella seconda parte, sino a quando non viene salvato da Redenta Tiria); l’unica differenza sta nella prosa al posto della poesia e nella presenza di un narratore esplicito: è Battista a parlarci della vita altrui secondo quello che si dice in paese o secondo le proprie informazioni personali, mentre i “fantasmi”di Lee Masters prendevano la parola in prima persona.
Breve ma intenso, molto intenso: in centosessanta pagine, partendo dal nonno del protagonista Mannoi Graminzone, facciamo la conoscenza di molti abitanti (o meglio, ex abitanti) di Abracasta, dipinti con notevole piglio letterario da un autore che mischia alla perfezione italiano e dialetto, quest’ultimo calato sempre al punto giusto della narrazione, quando solo la lingua locale (con la sua sterminata forza evocativa che solitamente manca nelle lingue nazionali) è in grado di rappresentare una situazione, un’immagine, un pensiero.
Spiccano sugli altri compagni di sventura Beneitta Trunzone, promessa suora dai genitori, che si fa mettere incinta da una passione fortissima e decide di morire con “Day Tripper” degli amati Fab Four sul giradischi piuttosto che consacrarsi ad un convento; Chileddu Malevadau, nato sordo cieco e muto a causa di un voto a Santa Lucia non rispettato dalla madre; Serafina Vuddi Vuddi, prostituta prima per violenza poi per scelta, slavata da Redenta Tiria in una sorta di viaggio in macchina alla Thelma e Louise, ma verso la vita.
“La leggenda di Redenta Tiria” è un libro originale, scritto da quello che è già un grande scrittore, scivola via veloce e davvero lascia un vuoto: vorresti conoscere altre storie, vorresti incontrare altri personaggi, vorresti fare mille domande a (e su) Redenta Tiria. Ma la sua bellezza, credo, sta proprio nella ricchezza stipata in poche pagine, come se troppe informazione in più avessero potuto rompere la magia di Abacrasta e dei suoi abitanti. Un libro, ne sono certo, che sarebbe piaciuto molto a Fabrizio De Andrè, tanto per l’ambientazione (la sua amata Sardegna) quanto per le storie di alcuni suoi abitanti che rimandano molto da vicino a quegli ultimi di cui Fabrizio parlava come di fratelli.