Ramin Bahrami

Ramin Bahrami Il suono dell`Occidente


Musica

08/11/2014 di Elena Bertoni
Nel 1976 in una Teheran dominata dallo Scià, viene alla luce Ramin Bahrami.  Figlio di un ingegnere metà persiano e metà tedesco, appassionato di musica e violinista dilettante, e di una pianista di origine russe, trascorre la sua infanzia  felice e spensierata a Teheran, in un periodo in cui la musica e la cultura hanno ancora un ruolo molto importante. E proprio la musica da sempre presente nella vita di Ramin, sarà la sua ancora di salvezza durante i terribili anni dell’adolescenza trascorsi in esilio e segnati dalla  morte del padre incarcerato per sette anni e poi lasciato morire apparentemente d’infarto.

A 11 anni Ramin fugge dalla rivoluzione di Khomenini e grazie ad una borsa di studio, arriva a Milano dove frequenta il Conservatorio diplomandosi in pianoforte e da lì inizia la sua formidabile carriera che lo porterà in breve tempo ad essere uno dei più apprezzati pianisti viventi.

Nel 2012 scrive Come Bach mi ha salvato la vita, mentre ora ci propone Il suono dell’Occidente (Le opere musicali che hanno fatto la nostra civiltà) in cui analizza 14 opere che hanno in qualche modo fatto la storia della musica occidentale, cambiando il corso del futuro, e che Bahrami ritiene pilastri fondamentali per la comprensione della musica classica.

Di ogni opera Bahrami racconta i tratti principali della vita e dello stile del compositore, per passare poi ad analizzare l’opera più significativa, in modo sintetico e semplificato, ideale per chi non è particolarmente “esperto” in materia.

Si parte con l’Orfeo di Monteverdi, poi le Quattro Stagioni di Vivaldi, legate per Bahrami alle tanto agognate vacanze estive sul mar Caspio,  e  la Messa in si minore di Bach, l’autore che Bahrami ama sicuramente più di tutti, tanto da considerarlo una religione.

Non possono mancare Mozart (che tutti ma proprio tutti, anche quelli che non amano la classica dovrebbero ascoltare ogni tanto), Beethoven, che ha sicuramente più ritmo di Jovanotti, non me ne voglia Allevi, e  la sua Nona Sinfonia, indimenticabile l’ultimo movimento con l’irrompere sulla scena del baritono che intona i celebri versi dell’Inno alla Gioia di Schiller, e poi ancora Wagner, la Messa di Requiem di Giuseppe Verdi, ed il Requiem tedesco di Brahms, per arrivare a Schonberg e Stravinskij.

Le analisi di queste opere sono spesso intrecciate a ricordi dell’autore che collega l’ascolto di un brano a qualcosa legato alla sua famiglia, alle sue esperienze, a momenti felici della sua esistenza e momenti di dolore atroce.

Il risultato è un libro decisamente gradevole e che si legge tutto d’un fiato, non essendo per niente noioso o didascalico e ci da la conferma ancora una volta che la musica è il miglior ponte per unire tutti i popoli, che ha un linguaggio universale che può essere compreso da tutti e abbatte ogni barriera, rende allegri o lenisce il dolore, permette il dialogo tra culture, razze e religioni diverse.

 

Come non dar ragione a Bahrami quindi quando afferma: “Penso che se menti umane sono state capaci di creare opere simili, innalzandosi al di sopra delle divisioni e dei particolarismi, allora esistono speranza e consolazione. Allora esiste un senso, anche nello struggimento e nel dolore”