Paolo Vites Enzo Jannacci. Canzoni che feriscono
Caissa Italia Editore, 2019, pp. 144, 16 euro Musica | Saggi
25/11/2019 di Laura Bianchi
Caissa Italia editore ha scelto proprio Vites, solitamente impegnato a scrivere di cantautori non italiani (fatta eccezione per il "dylaniato" De Gregori e per il suo ex amico Venditti), per rendere omaggio a Jannacci, con un volume dal titolo significativo e complesso: Enzo Jannacci. Canzoni che feriscono. Vites, che si intende di ferite della vita, ascoltate, viste, sperimentate, ha raccolto la sfida, immergendosi, lui ligure trapiantato in mezzo ai milanesi, nell'opera di un milanese, nipote di pugliese e figlio di un ufficiale dell'Aeronautica imprigionato durante la Resistenza, che meglio di tutti ha saputo ritrarre un'umanità dolente e ricca di dignità.
Jannacci, in un'intervista, disse che la propria ferita era "nata grande e non si chiude. La fa crescere vedere delle persone che tirano via dritto, fanno finta di niente, abbassano la testa, fan finta di non averla, vànn drizz. Ed io a vedere queste situazioni qua, dove gente che ha una specie di testa – l’è on ballòn – praticamente mi viene da sentirmi male, ma mi sento male prevalentemente dove c’è il ventricolo sinistro, qui… “Non guarisci! Già morto…” A me non me ne frega niente. Dice: “Ma te non guarisci?” No...bisogna andarci dietro, alle ferite, se no non se ne viene a capo. Bisogna volergli bene, e sentirle non come un dolore, ma come una continuazione del dolore. "
Di ferite, carezze, e canzoni, racconta questo volume, che non ha la presunzione di discettare riguardo gli stilemi e i temi di Jannacci, o sulle sue fonti di ispirazione, né di usare le canzoni come strumento per dimostrare una tesi. Questo libro racconta di come, a sei anni dalla scomparsa da questa terra del sciur dutùr, le sue canzoni acquistino importanza e significatività, giorno dopo giorno, proprio in forza della tensione, insita in ciascuna di esse, verso la ricerca di una verità nascosta dentro all'esistenza di ciascuno, soprattutto di quella degli ultimi, dei piccoli, dei sofferenti.
"Non sono mai stato ateo. Sto vivendo una maturazione del mio credo religioso. Sento di non avere più il tempo per occuparmi di cose troppo terrene; ora guardo al cielo, anche se ho scoperto di avere meno paura dell'eterno." Jannacci nel 2009 dichiarava il senso della propria ricerca con l'efficacia e la concisione sue caratteristiche, e Vites parte da queste parole, per individuare, nelle sue canzoni, il percorso di una vita artistica spesa in una direzione coerente, profonda, anche quando una superficiale semplificazione definiva le canzoni di Jannacci come demenziali, o, se andava bene, stralunate.
Comodo, sembra dire Vites, bollare come demenziale un autore che ci spinge a guardare in faccia alle molteplici sofferenze di questo mondo, e cercare del divertimento stralunato in situazioni che svelano l'intrinseca, essenziale, dignità di ogni uomo. Molto più arduo è invece leggere i testi che parlano di Vincenzina, o di quella che potrebbe essere sua figlia, Maria, del ribelle di Sei minuti all'alba, degli esclusi della tanto celebrata, quanto fraintesa, Vengo anch'io, e comprenderne lo scopo, la sollecitazione intima a una comprensione e a una condivisione solidale e empatica, sempre più attuale, urgente e visionaria.
E il lettore si ferma a riflettere a ogni pagina, non solo perché densa di riferimenti alla cultura e alla storia degli anni in cui quelle storie vennero presentate per la prima volta, ma soprattutto perché in ogni pagina, in ognuna delle numerose citazioni testuali, si trova a scoprire aspetti inediti del messaggio di Jannacci. Che, da buon cardiologo, e da eccelso essere umano, ci ferisce e ci cura il cuore, inteso non solo come muscolo involontario, ma come sede dei sentimenti migliori che animano la nostra volontà.