Ondine Khayat

Ondine Khayat Il paese senza adulti


PIEMME, 2010 Narrativa Straniera | Romanzo

03/03/2016 di Alessandro Leone
Ondine Khayat, figlia di madre francese e padre armeno, si è trovata a sperimentare due diverse culture. La sua attività all’interno delle ONG l’ha resa sensibile ad alcune tematiche calde come il maltrattamento dei bambini. Il paese senza adulti si erge dunque a simbolo di un’aspirazione, un’utopia solo teorizzata ma che forzatamente prende forma da una distopia reale. Il normale contesto di riferimento è quello classico di un padre ubriacone che distrugge l’armonia del nucleo familiare e costringe i suoi figli a crescere in fretta. In queste menti così facilmente modellabili, la mancanza di un punto di riferimento stabile scaturisce nell’inevitabile sogno di un mondo che non esiste, un mondo senza adulti.

Maxence dice che quando si diventa grandi, ci si rassegna. Diceva che il mondo è fatto male, perché quando si è bambini si sa quello che è normale e non lo è, ma si è troppo piccoli per fare qualcosa, e dopo, quando si diventa grandi, è troppo tardi, perché si accetta il sistema e non si vuole più cambiare.

Ma soprattutto:

“È così che vivono gli adulti. Sbagliano strada e dopo non hanno più la forza di tornare indietro.”
“Succede così anche ai bambini?”
“No, perché i bambini non hanno ancora messo recinti intorno alle loro vite.”


I bambini sono i più grandi recettori dell’educazione che gli viene inferta. Non conoscono i concetti di razzismo, xenofobia e intolleranza se la società che li accoglie non glieli insegna (spesso in via subliminale). E così si creano le menti del futuro e ci si ritrova già grandi con l’idea di un passato sfumato e mai vissuto per davvero. Qui non ci troviamo nella classica visione di un’innocenza perduta, benché il mondo dei bambini vinca nettamente sulle nefandezze degli uomini. Il punto è che l’innocenza la si è persa quando si è ancora innocenti. Non si può affrontare il male quando non lo si conosce ma si può combatterlo con l’unica arma che sconfigge il pragmatismo contemporaneo: la fantasia intrisa di quei sogni che sono linfa vitale di una piccola vita. Maxence è troppo grande per poterli distinguere ma Slimani no e forse il racconto acquista una marcia in più se ad affiancarlo ci sono altre voci, altri bambini, per scoprire che non si è mai soli e le sofferenze acquistano una dimensione corale quasi come fossero un manifesto. Religioni, idoli, simboli: è tutto vano al cospetto della fantasia e ciò che ci distingue dai bambini è che noi non possiamo o non vogliamo più crederci.

Quando saremo grandi, saremo sempre un po’ bambini. Ricorderemo tutto quello che abbiamo visto. Non dimenticheremo mai la sofferenza di tutti quei bambini dalle vite infelici che tendono disperatamente la mano verso di noi.