Michael Kimball E allora siamo andati via
(Adelphi)
di Francesco Ongaro
Invece non basta.
Non basta perché qualcuno potrebbe credere che si tratti di un giudizio riduttivo, sommario. Quando al contrario la definizione opera prima sta ad indicare la consapevolezza che ne seguiranno altre, che l’autore è uno scrittore autentico – scrittore per vocazione, azzarderebbe qualcuno -. Uno che ti scava gallerie nell’anima senza che tu te ne accorga. Letta l’ultima riga si chiude la pagina e si ascolta lo strascico di emozioni che è rimasto indietro. Ne è valsa la pena, si pensa, e si rimanda ad un futuro prossimo per decidere se si è incontrato anche un grande scrittore.
Kimball riprende uno dei temi nevralgici dell’immaginario americano: il tema del viaggio. Basti ricordare Keruac – Dobbiamo andare amico! Dove? Non lo so, però dobbiamo andare… - o i personaggi e le vicende di Easy Rider o di alcune canzoni di Bruce Springsteen. Però lo riprende a modo suo, con il piglio di chi al grande sogno americano non crede più. Forse non ha mai creduto.
Il protagonista del romanzo è una bambina e nel suo sguardo innocente – nel senso di non contaminato – la disillusione, la speranza, la rassegnazione e il fantastico si mischiano. Ne risulta una pasta agrodolce che accompagna ogni pagina. È tutto desolatamente vero, anche se sembra soltanto sogno. Si incomincia con una morte e si finisce con un abbandono o forse un’altra morte – è essenziale capirlo? – e nel frattempo si attraversa la provincia americana. Però non fatevi trarre in inganno dagli avvenimenti tragici della storia – sempre trattati con la leggerezza di cui solo i bambini sono capaci! – perché il racconto non si sviluppa attraverso una sequenza di fatti o un percorso geografico, bensì per mezzo di un’accumulazione e una giustapposizione di emozioni che conducono alla resa finale. La giustificano. Perché ogni finale è una resa senza condizioni. Una sconfitta inevitabile, a cui si giunge talvolta senza nemmeno combattere. O resistere. La conclusione del viaggio. Punto senza a capo.
Il testo regge anche nella traduzione italiana. Anzi – e qui forse azzardo troppo! – l’italiano rende meglio dell’inglese. Perché in italiano esiste anche il congiuntivo. E una bambina che parla per 135 pagine utilizzando solo l’indicativo crea un timbro particolare, un timbro che nell’inglese si perde. Ed è altrettanto buona la resa di alcuni termini di una lingua fantastica che la bambina – ce l’avrà un nome? - usa per descrivere il mondo – il brucio del sole, il didentro delle persone, le nuvole della casa curacaldo -. Ammesso che il mondo possa essere descritto o raccontato.
Mi ripeto. Opera prima. E dovrebbe bastare.