Matthew Josephson Surrealisti ed espatriati. La Parigi letteraria degli anni Venti
Minimum fax, 2024, Traduzione di Matilde Boffito Serra, 500 pagine, 16 euro Musica | Saggi
03/05/2024 di Franco Bergoglio
Figlio di immigrati ebrei in America, Matthew Josephson dimostra fin dall’adolescenza una predisposizione verso la letteratura maggiore rispetto a quella per gli affari, e quindi, invece di lavorare nella banca fondata dal padre, frequenta l’ambiente bohémien del Greenwich Village, dove tra gli altri stringe amicizia con Hart Crane e un gruppo che comprende Kenneth Burke, Malcolm Cowley e Allen Tate. Siamo al termine della Prima Guerra mondiale. Nel 1921 il giovane Josephson prosegue il suo apprendistato approdando a Parigi, dove entra nel contingente degli americani espatriati sotto la Tour Eiffel in cerca di avventura e letteratura.
Per E.E.Cummings, quella Parigi rappresenta «un matrimonio di cose materiali e immateriali». È il mondo in cui emerge il movimento dadaista: ai “concerti” tenuti al Cabaret Voltaire a Zurigo, Tzara e compagni espongono opere cubiste e presentano sculture africane, minando le basi della vecchia cultura.
“Poi Tzara e i suoi compagni cantavano e giravano intorno danzando come orsi o camminavano dondolandosi, vestiti di rozzi sacchi di tela, dinanzi a un pubblico costantemente sbalordito delle loro follie – un pubblico che prendevano in giro e insultavano come «fetenti borghesi», ma che tornava per ricevere lo stesso trattamento, e pagava il biglietto. Una rozza musica di jazz, squilli di campane e il tonfo dei tam-tam accompagnavano i canti dei dadaisti: Bumbum, bumbum, bumbum, Ideale, ideale, ideale...”.
Se gli americani sono curiosi del vecchio mondo, anche gli intellettuali francesi desiderano scoprire quello che Philippe Soupault definisce il «ritmo americano». Il paese del dollaro o, per i più colti, quello di Whitman e Poe: “poteva rivelare ben altro. ...Ora lui e i suoi amici dadaisti volevano scoprire la vera America, l’America dei soldati che avevano combattuto in Europa, del jazz dei neri, e soprattutto del cinema muto, il cinema di Mack Sennett, dei Pericoli di Pauline, di Douglas Fairbanks, Tom Mix, Rio Jim, degli assalti alle banche, i ratti fulminei, le formidabili scoperte di filoni d’oro, i magnati che masticavano sigari negli uffici sontuosi”.
L’autore di Surrealisti ed espatriati. La Parigi letteraria degli anni Venti rimane colpito da questo “scambio” culturale tra America e Europa e lo fa proprio, scrivendo agli amici: “Dobbiamo scrivere per il nostro secolo... Il poeta non dovrebbe essere meno ardito e inventivo dell’ingegnere del tempo di guerra; la nostra letteratura dovrebbe riflettere l’influenza del cinema... del sassofono... Invece d’invocare gli usignoli, i poeti dovrebbero cantare quei nuovi volatili che hanno ali gigantesche di legno e di tela, e motori al posto del cuore”.
I surrealisti francesi amano questi americani entusiasti che ballano il fox-trot e vogliono scrivere con un ritmo ragtime. Gli intellettuali americani amano le intemperanze di Aragon e Breton. Questa reciprocità non sfugge agli osservatori più attenti: Burton Rascoe, l’infaticabile cronista letterario del New York Herald Tribune, scrive dell’autore: “Josephson appartiene alla generazione degli scrittori che alla fine delle ostilità si recarono in Europa e... si accorsero che, mentre gli americani si volgevano all’Europa per ispirazione e guida, i giovani scrittori europei guardavano all’America... salutavano il nostro jazz come autentica musica nuova, lodavano i nostri trionfi architettonici come più affascinanti delle più belle cattedrali, trovavano nei nostri cartelloni pubblicitari nuove e più suggestive forme d’arte; e nei nostri motori, nei nostri argani, nelle nostre gru, nelle nostre macchine una nuova fonte di vita, e un campo di espressione
inesplorato...”.
Il soggiorno parigino apre anche la possibilità a Josephson di trasferirsi per un lungo periodo a Berlino, nel suo eccitante periodo “weimariano”. La Germania attraversa una crisi profonda ma le arti sembrano riproporre uno stordimento agli eventi della politica: “I locali notturni fiorivano con una stupefacente quantità e varietà, offrendo jazz di imitazione e champagne di imitazione”. Tornato in America, Josephson trova un Paese diverso. Domina un nuovo gruppo di intellettuali critici verso l’arricchimento impetuoso del Paese. F. Scott Fitzgerald viene all’epoca descritto da Edmund Wilson come «colui che aveva reso l’America conscia dei suoi giovani».
Alla fine la sbornia della finanza coinvolge anche l’autore che abbandona la letteratura per diventare broker di borsa. Un gioco dove quello che conta è “muoversi” e capire in anticipo le mosse degli “iniziati”, dei grandi operatori che muovono e manipolano la finanza. Quelli che Josephson avrebbe poi definito in un libro fortunato The robber barons, i capitalisti rapaci, visti all’opera prima durante e dopo la crisi del ‘29. I soldi non furono mai un obiettivo per questi
intellettuali. “Harold Loeb aveva lavorato a un saggio su «La mistica del denaro» (Broom, settembre 1922). Gli americani lo ammassavano e lo spendevano in quantità mai viste in precedenza come aveva insegnato Thorstein Veblen. La speranza per il progresso della nostra civiltà risiedeva secondo Loeb in questa consumazione diretta verso sempre nuovi oggetti. Nuove opere d’arte venivano create, senza la benedizione dell’accademia, dalla nostra
democratica vita di massa, dal nostro commercio e dai nostri spassi, e si affermavano tanto sotto le forme popolari delle nuove danze, del cinema, del jazz (espressione, in origine, dei nostri contadini neri) quanto con le superbe creazioni degli edifici verticali e funzionali della Scuola d’Architettura di Chicago”.
La musica che maggiormente ispira questa generazione è il ragtime e si balla il fox-trot. La musica contemporanea non è sufficiente a fronteggiare tanto vitalismo, come mostra un interessante parallelismo con l’industria:
“Le fabbriche Ford a Dearborn, nel Michigan, mi fecero una profonda impressione. La macchina che mi affascinava su tutte era una pressa gigantesca alta circa cinque piani che schiacciava interi vagoni ferroviari, furgoni e automobili riducendoli in un mucchio di frammenti d’acciaio in pochi secondi, e producendo una musica mostruosa, quale il compositore Edgard Varèse, con tutte le sue sirene e i suoi numerosi strumenti, non avrebbe mai potuto uguagliare”.
Il ritorno a Parigi dell’autore nella seconda metà degli anni Venti avviene ancora all’insegna della letteratura, del jazz e dello champagne. Le figure nominate sono troppe e vanno da Gertrude Stein a James Joyce, da T.S. Eliot a Ernest Hemingway. Josephson mantiene un approccio aperto: pieno di curiosità per la “guerra delle arti che infuriava a Parigi”, assiste a concerti di musica moderna tenuti da Erik Satie o da Arthur Honegger e passa le notti nei locali a sentire jazz.
È stato un intellettuale del suo tempo, ma, nonostante avesse flirtato con i surrealisti e le avanguardie europee o diretto riviste letterarie di nicchia, ebbe chiara l’importanza del rapporto tra arte nuova e media di massa e in una delle sue più acute riflessioni individuò il deus ex machina in un personaggio che spariglia le carte rispetto a quanto visto finora: “Nel campo della letteratura come delle arti plastiche, vedevo che l’indirizzo logico per l’uomo dell’avvenire sarebbe stato arrivare a comporre un matrimonio dell’arte con l’industria e i divertimenti di massa. Tale era il significato della lunga carriera di Frank Lloyd Wright. In Germania, l’anno prima, ero stato profondamente impressionato dalla visita alla scuola del Bauhaus-Dessau dove Walter Gropius, Moholy-Nagy e i loro colleghi si adoperavano per
l’insegnamento e la diffusione del disegno industriale moderno. Tutti costoro mi avevano detto schiettamente che gran parte della loro ispirazione derivava dall’opera di un artista americano quasi ignoto in America: Frank Lloyd Wright. Wright aveva lottato per imporre le proprie idee nell’anarchia edilizia del suo Paese: perché non pensare che i poeti e romanzieri siano capaci di adattarsi ai mezzi nuovi, specialmente il cinema e la radio? Perfino il vecchio Tolstoj, sul finire del secolo, vedendo i primi tentativi nella cinematografia di Edison era rimasto incantato dalle sue possibilità, e aveva esortato i giovani russi a cominciare a scrivere produzioni per lo schermo...”